David LaChapelle. Dopo il diluvio (After the deluge). Roma, Palazzo delle Esposizioni

Ritratto di David Lachapelle Courtesy David LaChapelle Studio

Il nome David LaChapelle è sinonimo di eccesso. E, come tutti gli artisti eccessivi, finanche trasgressivo (oppure, al suo contrario, noioso o anacronistico), si pone al confine tra il buon gusto e il kitsch. E, come tutti gli artisti al limite, spesso divide nettamente i pareri e le posizioni: lo si ama o lo si odia, senza vie di mezzo. Ma è lo stesso LaChapelle (classe 1963) che non lascia spazio a compromessi e a atteggiamenti intermedi e sfumati. Come, tra l’altro, è lui stesso: estremo in molte scelte. Passato da una vita mondana, al ritiro su un’isola del pacifico, l’Isola di Maui nelle Hawaii, in una tenuta la cui villa progettata dall’architetto Craig Maldonado è un perfetto esempio di architettura ecosostenibile; un luogo che lascia solo per il tempo necessario ai nuovi lavori. Punto e a capo.

Giustamente battezzato come artista pop (per alcuni addirittura post-pop) e surrealista, dopo quindici anni dall’ultima mostra, David LaChapelle ritorna nella Capitale. Anche questa allestita al Palazzo delle Esposizioni e curata da Gianni Mercurio, Dopo il Diluvio è una retrospettiva che inizia con i lavori degli anni Novanta, dando particolare risalto a quelli del 2006 (anno di produzione della serie The Deluge e di svolta) e che riunisce oltre centocinquanta opere del grande fotografo americano, offrendo una buona panoramica sulla sua vasta e singolare produzione artistica e, soprattutto, una puntuale esposizione della sua ricerca e attività nella sua interezza.

A spazzar via dubbi e a permettere al visitatore, nel caso non avesse ben chiaro chi sia David LaChapelle, di capire da subito con chi si ha a che fare, nella Sala delle Colonne sono esposte le gigantografie che danno il titolo alla mostra stessa. Folgorato sulla via di Roma, la visione della Cappella Sistina provoca un netto scarto rispetto alla produzione precedente, a partire dagli stessi destinatari dei suoi lavori. Non più riviste patinate, con servizi di moda e pubblicitari, ma musei e gallerie. Da qui anche la scelta del maxi formato. Ma anche estetica: scompare l’uomo. E prende più consistenza il concetto di tragedia, di degrado, di abbandono, di distruzione, in una ancor più inquietante atmosfera apocalittica, enfatizzata dalle tinte sature e tonali. Non esiste il chiaroscuro, non esiste lo sfumato, non esiste profondità di campo: tutto è netto, tutto è perfettamente a fuoco, tutto è sullo stesso piano, nel completo abbattimento delle gerarchie. Perché tutti concorrono nella degenerazione e decadimento sociale e etico e, soprattutto, ambientale. Comunque, già i suoi primi lavori sono caratterizzati da uno stile personalissimo e surreale.

Nato a Fairfield, Connecticut, negli anni Ottanta si trasferisce a New York, e inizia ad esporre in alcune gallerie della Grande Mela. Non ancora ventenne fu notato da Andy Warhol che gli commissiona un servizio per la rivista “Interview Magazine”; realizza così Beastie Boys: Times Square (1986). È il suo primo incarico professionale e la sua carriera prende definitivamente avvio. Tuttavia, porta a compimento i suoi studi, dopo i quali si arruola nei marines. Si trasferisce a Londra. Si sposa. Divorzia. Ritorna a New York. Collabora con riviste del calibro “Vogue”, “Vanity Fair”, “Rolling Stone”. Ha contatti con tutto lo star system hollywoodiano e non solo, e sono ben poche le celebrità che non sono passate davanti al suo obiettivo: Björk, Angelina Jolie, Naomi Campbell, Pamela Anderson, Paris Hilton, Michael Jackson, Fidel Castro (mentre sorseggia una coca-cola) e tanti altri. E da allora, con base a Los Angeles, continua a realizzare le sue serie fotografiche, i suoi video e le sue clip, a mietere premi e a organizzare mostre in gallerie e musei di tutto il mondo. E a proposito di videoclip, non dimentichiamo che nell’universo della musica è molto apprezzato; diversi sono i video che accompagnano canzoni di fama mondiale, come quello di Take me to Church del cantautore Irlandese Hozier con il grande ballerino Sergei Polunin; ma anche per Madonna e Lady Gaga, tanto per fare altri nomi. Ma ritorniamo alla mostra. Divisa in otto sezioni, come detto l’esposizione si apre con i lavori da cui è mutuato lo stesso titolo della mostra e che, nel percorso artistico di David LaChapelle, segnano una svolta artistica. Sin da questi primi lavori, sono visibili i caratteri peculiari della produzione artistica di LaChapelle.

Oltre a quelli sopra descritti, il colore e le inquadrature, il formato e le intenzioni, si rintracciano anche le ulteriori costanti del suo lavoro. La creazione di un vero e proprio set, complicato cui giunge dopo elaborati bozzetti, nel quale LaChapelle non cerca l’improvvisazione dello scatto, bensì vuole ottenere un composto e posato racconto, costruito insieme al protagonista dello scatto, attraverso una poetica fantasmagorica che, come lo stesso LaChapelle afferma, “è la traduzione in immagini dei miei sogni”. Per queste atmosfere oniriche, è stato ovviamente accostato a Federico Fellini, paternità che non rinnega, al contrario non nasconde che “Federico Fellini, Andy Warhol e Gesù, ognuno a modo suo ha cambiato la mia vita”. Uno stile accompagnato da un approccio istintivo e emozionale, che però non deve dare l’idea di istantanee, ma deve essere tutto molto composto e costruito. Seguendo sempre alla lettera il consiglio che gli diede Andy Warhol: “fai quello che vuoi solo fallo bene”. Perché “ogni foto deve raccontare un piccolo evento”. Con la chiara volontà di “far cogliere al pubblico messaggi sulla fragilità e caducità delle cose”, calati in un’atmosfera plumbea e apocalittica, di forte impatto visivo, ci sono questi corpi nudi che cercano di mettersi in salvo, rivolgendosi a un ipotetico nuovo Salvatore, o cercando personali alternative, ma anche rimanendo totalmente indifferenti e ignari rispetto a tutto quello che li circonda. Ecco allora questi corpi tonici, frutto di ore di palestra e risultato dell’edonismo della nostra epoca, ma anche corpi flaccidi per l’avanzare dell’età o per l’eccesso di cibo, che si aggrappano a questa rivisitata croce, un palo elettrico, da cui dipende tutto il nostro quotidiano e alla quale tutto il mondo occidentale è asservito. E nei diversi gruppi che costruiscono il notevole tableau vivant, si rileggono tutte le citazioni della storia dell’arte a cui LaChapelle guarda (da Michelangelo a Raffaello, al Bernini, insomma ai grandi del Rinascimento e del Barocco), senza però reinterpretarla, ma attualizzandola (come hanno fatto tutti i pittori del passato quando si rivolgevano alle storie bibliche, abbigliando i loro personaggi secondo la coeva moda). Ma nonostante la catastrofe c’è chi non molla il proprio cellulare, mettendo così in mostra un’ampia gamma dell’universo umano. Gigantografie accompagnate da otto ritratti singoli, di annegati, fortemente suggestivi. Un diluvio da cui ben poco o quasi nulla si salva. Neanche la stessa arte. I cui luoghi di conservazione sono andati completamente in rovina. Cui sopravvivono solitarie le opere d’arte, miracolosamente intatte, forse l’unico appiglio da cui ri-partire per la ri-costruzione di una nuova società, ovviamente basata su criteri diversi e inediti rispetto a quelli che l’hanno portata alla distruzione. Smisurata originalità si rintraccia anche nelle sezioni Natura Morta, La Terra ride nei Fiori e Il Mio Gesù Privato. Con l’intento di raggiungere le persone, parlando loro del corrente evo, la prima è una serie di “ritratti” di personaggi famosi realizzati attraverso il riassemblaggio dei pezzi delle statue del Museo Nazionale delle Cere di Dublino, oggetto di un violento atto di vandalismo. Cui fa da corollario una sorprendente Ultima Cena. Ne La Terra ride nei Fiori (un ciclo che lo ha visto impegnato per più di due anni) è celebrato il tema della vanitas, realizzata seguendo l’impianto delle Nature Morte del Cinque/Seicento. Circondando i fiori freschi da oggetti voluttuari della società contemporanea, di nuovo ricorda la velleità umana di voler dominare la Natura, ricordandogli la fragilità e la fuggevolezza delle cose, perché “pensiamo di possedere le cose, ma è tutto in affitto”. Cristallizzati in una luce molto bassa e con una lunghissima esposizione, gli oggetti che li circondano rimandano principalmente alla tecnologia che ci circonda e ci soffoca, che ci fa vivere nell’illusione di una totale connessione col mondo, invece ci isola completamente da esso. Mentre la volontà di rappresentare la presenza del Divino nella quotidianità è espressa ne Il Mio Gesù Privato, proposta attraverso gli impianti rinascimentali de La Pietà e de Le Storie di Cristo. Una sezione, quest’ultima che trova un curioso riscontro con un fatto di attualità verificatosi in questi giorni nella città di Torino dove gira per le strade, un ragazzo (ex montatore cinematografico, disoccupato) travestito da Gesù che dispensa massime d’amore e di saggezza in cambio di qualche spicciolo, fermato dalla polizia cinque volte (“La Stampa”, 18 maggio 2015).

  • David LaChapelle – Dopo il Diluvio
  • Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale 194 – Roma
  • Periodo: dal 30 aprile al 13 settembre 2015
  • Orari: domenica, martedì, mercoledì e giovedì: dalle 10.00 alle 20.00;
  • venerdì e sabato: dalle 10.00 alle 22.30; lunedì chiuso (Dal 13 luglio al 30 agosto: dalle 16.00 alle 24.00)
  • Informazioni: tel. 06 39967500; www.palazzoesposizioni.it
  • Ingresso: intero € 10.00; ridotto € 8.00

Link ai Video

Hozier, Take Me To Church, 2015
Sergei Polunin
https://www.hightail.com/download/bXBiRE9wMGs1R1BWUThUQw

Making of Land Scape, 2013
https://www.wetransfer.com/downloads/ebda325d49eb2c2a9a41c8fe70a5583420150421204640/e456d2dab53920a2d83d6141c510fad920150421204640/336c6d

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Daniela Trincia nasce e vive a Roma. Dopo gli studi in storia dell’arte medievale si lascia conquistare dall’arte contemporanea. Cura mostre e collabora con alcune gallerie d’arte. Scrive, online e offline, su delle riviste di arte contemporanea e, dal 2011, collabora con "art a part of cult(ure)". Ama raccontare le periferie romane in bianco e nero, preferibilmente in 35mm.

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