Intrecci. Come può un uomo

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Pur districandosi attraverso i distinti contenuti espressivi del sostantivo, è la sua declinazione plurale che ne amplifica i rimandi e le assonanze. Perché la collettiva Intrecci, curata da Rischa Paterlini, da Anna Marra Contemporanea, riunisce sei artiste i cui lavori si intrecciano e si collegano.

Si incrociano nella tecnica, nelle biografie e nelle questioni affrontate nella loro ricerca. È la distribuzione dei fili con cui ricamano (nell’accezione più ampia) le loro tele e tessuti, che le accomuna. È la loro terra d’origine, l’Iran e, per la precisione, Teheran, che le unisce.

È la riflessione sulla restrizione della libertà delle donne che le lega. È la tradizione che le avvicina.

Ma, al tempo stesso, è una collettiva che riporta alla mente passate (superate?) considerazioni, domande, questioni. Esiste un’arte femminile/al femminile? L’arte è uno strumento politico? Quanto peso ha la tradizione nella quotidianità, personale e collettiva? La dimensione nostalgica è quella che permette di guardare con distacco le proprie radici?

Infatti, seppur tutte nate a Teheran, nessuna delle sei artiste coinvolte nella mostra, vive nella propria città di origine: Sissi Farassat (1969) dal 1978 vive a Vienna; Negin Mahzoun (1984) e Azita Moradkhani (1985) a New York; Koushna Navabi (1962) a Londra; Sepideh Salehi (1972), dopo gli studi a Firenze, tra Washington D.C. e New York; Zoya Shokoohi (1985), dal 2015 a Firenze.

Giacché, la rivoluzione del 1979 che trasformò la monarchia iraniana in una repubblica islamica sciita, che basa la propria costituzione sulla shari’a, sulle regole morali religiose ispirate dalla legge coranica, impose, per prima cosa, l’hijab e, indirettamente, cancellò i colori delle stoffe degli abiti femminili (ricordato anche nei lavori di Hagama Amiri e magistralmente narrato nella pellicola ambientata in Algeria Non conosci Papicha, 2020), nonché tutte quelle arti prettamente femminili, come la danza, il canto, il balletto, la moda.

Sono proprio queste privazioni che, per opposizione, vengono enfatizzate nei lavori esposti: il corpo femminile negato, occultato, nascosto, è qui esaltato, mostrato, posto al centro di ogni lavoro.

E così riunite, le opere si trasformano nelle parole di un racconto più ampio, che ci parla di una cultura, di una Storia, di un intero universo e, allo stesso tempo, pone sotto ai nostri occhi le distanze ma, soprattutto, la vicinanza di certe richieste, necessità, sollecitazioni, legate alla violenza di genere, della quale la stessa cronaca ogni giorno ci informa.

Quella cronaca che ci ha aggiornato del coraggioso gesto di Mahsa Amini di tagliarsi i capelli, che le costò la vita, ma che fu imitato da tantissime donne, dando così vita a una profonda rivolta che, dal 2022, si protrae fino a oggi. Quella stessa cronaca che ci informa che in Italia, quasi ogni tre giorni, una donna viene uccisa per mano di un uomo che si rifiuta di accettarne l’autonomia e l’autodeterminazione.

Così, l’arte diviene presa di posizione, denuncia, resistenza, lotta, protesta. Con il loro indiscutibile estetismo, solo con uno sguardo più attento si colgono i corti circuiti messi in atto da ciascun lavoro.

Su capi di abbigliamento o carta Azita Moradkhani disegna (disegno che solo se guardato attentamente se ne coglie il tratto altrimenti percepito come una stampa) indumenti femminili intimi nei quali inserisce degli elementi che indicano le possibili incursioni maschili sui loro corpi.

Con un involontario rimando alla locandina del film The Lobster (2015), Sepideh Salehi, attraverso dei collage fotografici, evoca l’assenza, quella del corpo, costretto ad essere nascosto sotto i veli, sul quale stende la memoria dei paesaggi del suo paese. Con lavori diversi, che interessano comunque la fotografia, Sissi Farassat declina in modo originale la tecnica del ricamo: ricopre delle immagini sfocate di Self Portrait con un intreccio di fili che ancor di più concorrono a rendere evanescente il soggetto dello scatto, oppure, nella serie Clouds, con perline Swaroski, ad indicare come il cielo sia senza confini. Interventi che conferiscono all’immagine un aspetto materico e tridimensionale.

Piccolo inciso: è quasi superfluo rammentare quanto l’arte del ricamo affondi le proprie radici nella tradizione più antica della Persia, dando vita a delle peculiari forme delle diverse zone.

Invece, Negin Mahzoun utilizza il ricamo, o meglio, il cucito, per evidenziare l’oppressione: estese stoffe sulle quali stampa la figura del corpo femminile, solitamente il proprio, o frammenti, sulle quali poi, una volta appallottolate, interviene con diversi passaggi di cucito, fino a rendere quasi impossibile l’identificazione della figura o del dettaglio, se non per sommari indizi.

Zoya Shokoohi recupera un altro elemento fondamentale della cultura persiana: la scrittura (elemento fondante di diverse artiste iraniane, su tutte Shirin Neshat).

Durante l’opening della mostra, ha scritto, in modo ripetitivo, quasi ossessivo, Attraversa il confine, titolo della performance stessa, fino a creare delle macchie scure dove non sono più intelligibili i segni stessi, come ben evidenziano gli scatti fotografici della performance.

Segni che diventano schermi, gli stessi che ognuno di noi si pone attraverso il proprio smartphone. Infine, Koushna Navabi stende il suo ricamo su delle sculture che evocano o utilizzano oggetti domestici, quegli oggetti abbandonati durante l’esilio e con i quali, attraverso i fili, cerca di mantenere un’effimera connessione, negata dall’attuale stato politico del suo Paese.

Sebbene alcune artiste hanno storto il naso nel leggere la domanda “esiste arte femminile/al femminile?”, perché, giustamente l’arte è come… il sesso degli angeli, altrettanto giustamente esiste un’arte che parla di istanze femminili, che tocca corde femminili, che solo le donne possono comprendere fino in fondo, perché la violenza di genere e le privazioni imposte alle donne, sono perpetrate e imposte dagli uomini sulle donne, nelle società ancora profondamente incardinate sulla cultura patriarcale.

Pertanto, come potrebbe un uomo capire cosa significa essere costretti a celare il proprio corpo? Essere malmenato? Essere stuprato?

Info mostra: Intrecci Anna Marra Arte Contemporanea
Sissi Farassat, Negin Mahzoun, Azita Moradkhani, Koushna Navabi, Sepideh Salehi, Zoya Shokoohi

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Daniela Trincia nasce e vive a Roma. Dopo gli studi in storia dell’arte medievale si lascia conquistare dall’arte contemporanea. Cura mostre e collabora con alcune gallerie d’arte. Scrive, online e offline, su delle riviste di arte contemporanea e, dal 2011, collabora con "art a part of cult(ure)". Ama raccontare le periferie romane in bianco e nero, preferibilmente in 35mm.

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