Siamo tutti in pericolo. Omaggio a Pasolini

Siamo tutti in pericolo. Ph Valentina Baruffo

Su Pier Paolo Pasolini è stato detto e scritto (quasi) tutto. Tanto più accade nei giorni del quarantennale del suo mai chiarito omicidio.
Anche il  Teatro Franco Parenti di Milano sceglie di omaggiare il poeta, scrittore, regista friulano con un ciclo di spettacoli.
Lo fa nel modo più apparentemente semplice ma senza dubbio efficace, forse fin troppo poco praticato: Con la sua sola voce.

È proprio la voce dell’intellettuale di Casarsa ad accogliere lo sguardo dello spettatore che si apre su una stanza spoglia e una vita mostrata come la scena, già in corso. Dominate, entrambe, dai contrasti, dalla dicototomia fra il bianco e il nero.
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Quando la voce tace PPP si fa corpo, prendendo a prestito quello di Gianluigi Fogacci, e lo spettatore sbircia un giorno di settembre del 1975 e la sua foga mentre, al Presidente della Repubblica impegnato una a rivendicare una gloria nazionale posticcia, rimprovera di essere a capo di un Paese ridicolo. Amaro, sarcastico e profetico. C’è tutto il pensatore Pasolini in quelle parole, pubblicate in settembre sul Corriere della Sera, e poi in quelle pubblicate in ottobre su Il Mondo, che costituiscono la prima parte della pièce.
C’è un ritratto dell’Italia spietato e accuratissimo, e l’auspicio della necessità di «una seconda rivoluzione industriale senza che ci sia stata la prima» ritorna come un mantra lungo tutto il testo, così come l’invito, quasi rabbioso, alla ricerca del recupero di una purezza originaria che i falsi intellettualismi e la televisione avevano, già allora, cancellato. Una ricerca che giunge il suo apice nella proposta – provocatoria ai nostri occhi, eppure quantomai sincera – dell’abolizione della scuola media d’obbligo, che secondo lui nulla aggiunge alla cultura necessaria a ciascuno, se non la presunzione.

Pasolini però non è solo parole. E’ anche – soprattutto – corpo. Questo dice la interessante scelta registica, firmata Daniele Salvo – di inserire la presenza del corpo di Michele Costabile, che entra ed esce dalla scena, nudo e silenzioso, discreto e insieme presentissimo. Esiste senza descriversi o spiegarsi. È il poeta? È Ninetto Davoli, mentre si sdraia col poeta steso? È il concetto stesso di corporeità? È la passione e l’incubo che aleggia? Forse tutto questo insieme. Regala un tratto di onirico a un lavoro che per il resto è fortemente politico, che dimostra come anche a quaranta anni dalla sua scomparsa Pasolini parli all’Italia, e la sua voce sia ancora scomoda,  capace di sfuggire a ogni tentativo di rinchiuderlo nella strumentale utilità di qualcuno, chiunque sia.
Lo dimostra la messa in scena, nell’ultima parte dello spettacolo, dell’intervista che concede a Furio Colombo dell’Espresso, che a sua volta si incarna in Raffaele Latagliata, mischiato tra il pubblico; come gli altri anche Colombo, Pasolini può fare poco più che guardarlo, e riflettere.
L’intervista è la summa del pensiero di Pasolini, e porta lo stesso titolo, evocativo e ficcante della pièce, che forse sarebbe sufficiente da solo ad aprire grandi spazi di riflessione: Siamo tutti in pericolo.
È Pasolini stesso a suggerirlo. È il pomeriggio di sabato primo novembre.

Poi Fogacci/Pasolini si stenderà sul letto, il corpo abbandonato, nella posa vinta di Cristo staccato dalla croce. Un martire laico, sembra suggerire.
È così, solo e nel buio, che  tace e scompare agli occhi di chi guarda. Il corpo di Pasolini, devastato, sarà trovato il giorno seguente, all’Idroscalo di Ostia.
Una messinscena senza dubbio efficace, sorretta soltanto da alcune videoproiezioni a fondo scena. Non una parola si aggiunge. Tutto ciò che Fogacci recita è, esclusivamente, venuto dalla penna e dalla voce di PPP. Si sceglie di privilegiare questo, che ha il pregio della fedeltà nella trasposizione del pensiero.
Tuttavia, la scelta di limitare al minimo l’interpretazione – Fogacci stesso sembra scomparire, dentro alle parole di Pasolini – rende il  testo particolarmente ostico. Fatica ad avvincere, dal punto di vista schiettamente teatrale, ma evidentente non era didattico, lo scopo che la regia si era data. Rimane da chiedersi se possa essere la scelta più efficace, considerata l’importanza del messaggio anche per le generazioni successive alla scomparsa dell’autore friulano.
Se tuttavia si è disposti a mantere costantemente alta la soglia di attenzione, non si potrà che cogliere tutta la forza di un artista e di un pensatore che, sintetizzerà Moravia ai suoi funerali, «dovrebbe essere sacro» Quale sarebbe stata la sua risposta, anche solo all’uso di questo aggettivo? Il silenzio è fragoroso.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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