Abbiamo Tempo. All’Out Off, la grazia sotto pressione della vita e di Giulio Casale

Abbiamo tempo - ph. Marco Olivotto

«Vedi solo buio, non ti è dolce il buio? È tutto teatro interiore, solo un vero attore lascia un buon odore…Io voglio che tu sia un avvento un mistero un miraggio un oltraggio al presente così deprimente tutto preso a disfare e a fare del crimine un vivere  Dovremo vivere Un vero vivere» un ragazzo che faceva canzoni, scriveva così a una giovane stanca.

Quel ragazzo oggi è un uomo, ma l’invito e lo sprone è rimasto lo stesso.

Grace under pressure. Grazia sotto pressione. Secondo Ernest Hemingway era la corrida, che ai suoi occhi era la sublimazione in concreto di abilità, coraggio e morte e quindi, per questo, bellezza.
Cos’è oggi, la grazia sotto pressione?

È Abbiamo tempo, in scena al Teatro Out Off di Milano. È Giulio Casale, un uomo solo sul palco che è tanti uomini. Prima di tutto perchè negli anni ha avuto e ha tanti volti: rocker, poeta, attore, cantautore, scrittore.
Ma soprattutto perchè sale sul palcoscenico per raccontare l’uomo. Ovvero ciascuno. Noi.

Racconta la grazia sotto pressione del vivere. Dell’essere. Padre. Maschio. O più semplicemente – o forse no? – vivo. Qui, adesso.

In un presente che dimentica ogni attualità, già scaduta e già inutile, per essere aperto davvero, e affrontato nella sua essenza. Lo fa in uno spettacolo che è piutosto una corsa, non frenetica e mai distratta, ma a perdifiato si, verso una discesa nel profondo di ogni aspetto del presente, che ritrova il suo senso.

Casale racconta l’uomo raccontando se stesso. Riproponendo se stesso in una luce che gli appartiene da molti anni e riesce a suonare sempre nuova. Ricostruisce uno lavoro antologico, fatto di nessi linguistici e logici che strizzano l’occhio a Bergonzoni e che pure sono autenticamente suoi e ripercorrono il suo percorso di uomo e di artista.

Partendo dai suoi maestri; «Cantami di questo tempo..», diceva uno di loro.

E Casale li canta. Tutti. Canta Gaber, il primo, il suo essere padre e il suo essere nel tempo che è e che muta, “I padri miei, i padri tuoi”

E poi canta “La canzone di Nanda”, quella Fernanda Pivano che gli è stata amica e che amava dire a chi le rimproverava troppa emotività nei giudizi che lei non criticava, si limitava ad amare.

Che non significa essere proni, ma sapere cogliere dentro a quello che si cerca, si scopre e si porge a chi osserva, ciò che lo rende unico, capace di parlare al profondo di ognuno, e potenzialmente eterno.

Anche davanti a un lavoro di Casale, seguire questo esempio è l’unico modo di non svilirlo.

Seguire il viaggio che passa attraverso Nanda per Hemingway, e poi Allen Ginsberg e la loro America, e poi Pavese. Ma anche Pasolini, Battiato, De Gregori, De Filippo.
E dopo i maestri racconta sè stesso. Il suo sguardo sul mondo, “La febbre” di vita che lo attanaglia.
Si unisce alle voci che hanno saputo raccontare il tempo e l’uomo. Le sue frenesie, le sue fatiche, le sue fragilità. Le mistificazioni, le idolatrie.

Il suo scomporsi, come i pezzi di corpi ingabbiati che ingombrano la scena alle sue spalle, senza che neppure lui ne sia consapevole.
E per converso il bisogno – che in alcuni, soprattutto alcuni artisti, e Casale è uno di questi, è quasi un grido – di rifarsi intero, vedere e descrivere il mondo per ritrovarvi una voce, che sia vera, altra. Oltre.
E il teatro, e la sua finzione, non possono che essere il luogo necessario alla farsa della vita, e al deserto che è diventata. Fatto di mercificazione di tutto, di violenza, di parole di circostanza che pretendono vanamente di riempire distanze all’apparenza incolmabili.
Un deserto che può fiorire soltanto prestando ascolto alle voci dei poeti.

Purchè si sia disposti a recepirle, bastano a costruire. Facendole proprie, si può aspirare a dire davvero qualcosa;
Così anche queste parole sono infiorate di citazioni non dichiarate: non per volontà di rapina, ma perchè se le parole giuste sono state dette, è giusto usare quelle e da quelle trarre insegnamento.

E iniziare a propria volta un percorso, liberato dai condizionamenti.

Senza paura anche di cadere, di commettere qualche errore. Perchè una volta ascoltate le parole di chi ha già camminato, le risposte ciascuno deve cercarle da sè. Senza foga. Perchè ad ogni modo..Abbiamo tempo.

«Bisognerebbe farsi strumento, e vibrare e risuonare In vece di parlare bisognerebbe farsi canto, e cantare d’altro che questo tempo in vece di protestare. Bisognerebbe cantare anche quando si è sul punto di recitare una parte e poi non smettere, non andare e non dover nemmeno più tornare Non andarsene più. Ché a ben vedere abbiamo tempo, abbiamo tutto il tempo di sbagliare e riprovare. Liberamente, compiutamente magari E abbiamo precisa memoria di un tempo ancora possibile. Ancora tutto da inverare»

 

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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