Polvere. Fenomenologia di una violenza

Polvere. Foto di Angelo Maggio

Uno scontro, quasi pugilistico. E i colpi arrivano con ancor più forza perchè i toni sono bassi. È questo che impressiona in “Polvere”, di e con Saverio La Ruina, andato in scena al Giuditta Pasta di Saronno. È quasi un ring, composto solo di un tavolo, due sedie e un quadro quello dove una nuova coppia è racchiusa, e si fronteggia.

Il testo fa intuire il suo fulcro dalle prime battute: lui prende la parola chiedendo spiegazioni degli atteggiamenti della compagna. Sembra un uomo riflessivo, profondo, forse persino sensibile, e così lei risponde in modo sincero, comprensivo, in fondo stanno insieme da poco. Da qui parte una progresssiva e inesorabile caduta nel baratro.

Ogni parola, da quel punto in poi, sarà un chirurgico e devastante colpo allo stomaco: sordo, mirato a fiaccare una donna che è un’avversaria, non – mai – un amore, anche se il termine si spreca.
La Ruina affronta il tema della violenza dal suo punto più delicato e infido, quello immediatamente precedente il deflagrare delle botte, ma che serve a prepararle distruggendo le difese e l’autostima della vittima, portandola all’estremo della sua vulnerabilità.
La donna viene asfissiata da un fuoco di fila di domande, di ripetizioni ossessive, a cui risponde con pazienza e poi con sempre maggior dolore e fatica.
Nulla le viene risparmiato, lui infila il coltello dei suoi giudizi anche nelle pieghe più nere del suo passato. E lei non sa più difendersi perchè i pugni arrivano nel guanto di velluto di una voce melliflua, che sotto le vesti della pacatezza nasconde una freddezza aliena da qualsiasi empatia, e ancor più da ogni forma di sentimento verso di lei

Il testo però non si ferma, descrivendo in modo potente e non retorico l’intera escalation di una violenza. La costruzione dialogica rende tuttavia ancora più evidente quanto, quando si giunge alla violenza che non si può più non riconoscere come tale, è già troppo tardi.
Quando si assiste agli schiaffi, e alla maledetta frase «te la sei cercata, e forse, in fondo, te la sei anche meritata», è già troppo tardi.
Tuttavia, non è qui che finisce l’arco narrativo. Quando tutto sembra perduto, le ultime forze possono anche lasciare spazio a un sussulto di dignità e di reazione.

Un esito che a prima vista può apparire frettoloso, consolatorio, finanche amaramente poco credibile, per quanto la solidità della situazione sulla quale cala il buio sia tutt’altro che assodata.

In realtà, il motivo profondo di questo tipo di scelta è spiegato e giustificato dalle risposte razionalmente incomprensibili, eppure così crudelmente reali, che vengono dal pubblico,  in quasi tutte le repliche, ovunque, pochi secondi dopo che il sipario si è chiuso
A predominare è la rabbia, soprattutto da parte femminile. E qui si compie il paradosso: l’astio non è verso il violento, ma verso di lei. Rea di aver aspettato troppo, di avergli permesso di avere tanto potere. Qualche moglie chiede scusa al marito di averlo portato a vedere cose da donne.
Da quelle stesse donne, le battute più dolorose del  dialogo erano state accompagnate da risatine: senz’altro, piuttosto che di cinismo come si sarebbe facilmente portati a credere, si tratta del bisogno di porre distanza fra sè e ciò che si osserva, di ricordarsi come ciò che si sta osservando avviene – solo  – sulle tavole di un palcoscenico. Che, dopo,  l’attore prenderà per mano la collega, sorridendo e ringraziando.

Sono questi momenti fuori scena a rendere – più ancora che un copione ottimamente scritto – la forza e l’importanza di un lavoro come Polvere.

La prova di quanto ancora sia ancora lunga la strada per avere contezza di quanto perverso e difficile da raccontarsi – prima ancora che da affrontare – sia il rapporto psicologico che sul quale si sviluppano le dinamiche distruttive tra vittime e carnefici. A fronte di questo, diventa importante testo dove si fa via via meno visibile la teatralità, per dimostrare la durezza di un racconto di realtà.
Le prime battute di La Ruina sono dette con una recitazione calcata, apparentemente scolastica. Che progressivamente viene meno. Anche questa – al di là della sorpresa iniziale – appare una scelta sapientemente calcolata: quell’uomo che fa credere di essere perdutamente innamorato, e che più avanti calibrerà accuratamente la dolcezza per giustificare delle mostruosità, sta recitando. Sta ingannando. Sta appagando il suo bisogno di possesso, non di amore. Lei intanto progressivamente passa dalla sorridente accondiscendenza di una donna positiva, a una ragazza sfibrata, rinchiusa in un abito scuro e in un volto triste che – saggiamente – la brava Cecilia Foti non lascia neanche a fine spettacolo. Quel volto dice che si fa presto a pensare che a nessuno degli spettatori accadrà mai niente del genere. Ma che, invece, nessuno deve sentirsi escluso, perchè farlo è far vincere i carnefici.
In pochi spettacoli come questo – se si riesce invece a viverlo senza depotenziarlo tramite escamotages psicologici – si sente la speranza, persino l’esigenza fisica, che finisca presto. Che ci si possa alzare e tornare a casa. Un sentimento doloroso, che spezza il fiato. Ma che proprio per questo è necessario, per provare a immaginare davvero che cosa si prova. A che cosa ciascuno è potenzialmente esposto.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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