Alzati pugile. Levitico: Pentateuco #3

«Se gli immigrati si prendessero una settimana di sciopero, il Paese si bloccherebbe» A dirlo è Teresa Sarti Strada, in un’intervista del 2005. Il terzo capitolo del Progetto Pentateuco della Confraternita del Chianti, andato in scena 11 anni dopo al Teatro Verdi – ma partito qualche anno fa da Gunnarp, in Svezia, insieme ad Teater Albatross – parte da un assunto molto simile.

Quanti ministri e pubbliche autorità abbiamo sentito, in questi anni, riempirsi la bocca di parole roboanti, di paternalismi, di promesse e impegni. E se tutti gli immigrati scioperassero davvero? Sentiremmo, dalla bocca di un Ministro della Difesa (da cosa, viene da chiedersi) parole grottesche come quelle che gli mette in bocca la drammaturgia di Chiara Boscaro, probabilmente. Parole che fanno ridere, o quantomeno sorridere. Nel tempo che ci si mette ad accorgersi che sono le stesse che abbiamo sentito pronunciare al telegiornale dell’ora di pranzo.

Ma in questo presente ipotetico (ma lo sarà poi davvero?) gli immigrati non stanno soltanto scioperando. Hanno deciso di fare molto di più, di sovvertire la loro condizione, e una rivoluzione incombe. Duri comunicati ne scandiscono l’approssimarsi, mentre l’autorità offre il perdono in cambio della resa  I governanti continuano a dettare condizioni dai loro scranni, sordi. Un atto di forza e di scherno che il ministro paga con la vita. Ma se persino Dio fosse il contrario di quello che l’uomo elegante e compassato dall’eloquio aristocratico si aspetta, e somigliasse in modo impressionante a Morgan Freeman?

Niente è come un certo potere è portato ad aspettarsi. Tranne il potere stesso, che in ogni luogo e in ogni tempo applica gli stessi metodi. Chirurgici e spietati, vestendo un camice lindo e sciorinando e descrivendo meticolosamente parole che si possono pronunciare perchè tanto nessuno sentirà, come “tortura”, e “rappresaglia” Quella rappresaglia che il potere attua sulle persone diventate, più di prima, indesiderate e nemiche. Tutte, indisctiminatamente. Uomini, donne, bambini. Rinchiusi in luoghi che molto peggio e più disumanizzanti che galere, e sono raccontabili solo – e a fatica – da chi li ha vissuti. Di nuovo, tutt’altro che lontani dalla realtà di quelli che la burocrazia chiama CIE, CPT, o con qualche altra sigla. Tra quelle sbarre e, prima, nei container che lo hanno portato fin lì c’è un bambino. Uno dei tanti invisibili per forza, uno dei tanti Nessuno. Infatti non ha un corpo. Non è, in scena, altro che una voce.
Intanto, un impresario sta organizzando un incontro di boxe, e su questa trama si innesta  Jack London. Improvvisamente, quest’uomo rude e senza scrupoli è senza avversario per il suo campione, la Roccia. Quale miglior occasione per aiutare il potere, che lasciare che la Roccia massacri un poveraccio qualunque, un immigrato, magari nero. Ideale carne da macello. Ideale per «ristabilire l’ordine», e dimostrare che «il campione distrugge il ratto». Perchè così vanno le cose e così devono andare.

E così la Roccia ha il suo avversario. Il Messicano. Allenato da un vecchio saggio un po’ idealista, e un po’ affamato soltanto di godersi la pensione e la fama.
Ma questa non è soltanto boxe, è molto di più. E’ una lotta per il diritto a esistere. E il Messicano, con i colpi giusti sa che può liberarli tutti. Ed è questo che vuole fare. La sua personale rivoluzione, che accenda la miccia di quella che verrà. Tutti lo danno per spacciato, è un morto di fame. Ma è questa la sua forza: lui non ha più nulla da perdere. Sa bene che «non si può uccidere un morto»

E il ring che rinchiude la vicenda piano piano scompare, e i piani della scena, del simbolo e del reale si confondono. Marco di Stefano firma una nuova accurata regia di un testo che lascia il lirismo dei capitoli precedenti del progetto per acquisire la duezza che si confà al contesto, anche dal punto di vista testuale. Ne viene – come ormai abitudine della Confraternita – un lavoro nuovamente denso di spunti, che come gli altri parte da un versetto biblico, nello specifico che richiama l’accoglienza allo straniero, per dimostrarne la forza e la centralità nel qui e ora.
Una pièce che arriva diretta, come un jab alla bocca dello stomaco, di quelli che non si possono parare, e che tuttavia sfrutta con abilità i registri scenici, sa far pensare ma anche ridere, di quel riso che forse esorcizza ma forse invece lavora nel subconscio dello spettatore, evitando a ciò che accade in scena il rischio di essere percepito come didattico.
A dare corpo a tutti i personaggi un camaleontico Marco Pezza, che affronta la sua prima volta solo in scena dando mostra di tutta la sua versatilità, al punto da rendersi, di cambio in cambio, pressochè irriconoscibile: una prova di talento tutt’altro che semplice.

Una nuova scommessa vinta dalla Confraternita, che dimostra che, anche quando le atmosfere si fanno dure e tutt’altro che raffinate, anche un pugile, per essere efficace, deve avere una sua eleganza. Un metodo. Perchè tutti siamo pugili attaccati e con tutto e insieme niente da perdere, E non è accecati dall’istinto o dalla presunzione, che si può sperare di vincere. Perchè «Occhi belli la “bellezza” non è cosa per noi. Ma la grazia, la grazia sì».

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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