Gianni Berengo Gardin Vera fotografia # 1. Reportage, immagini, incontri

Gianni Berengo Gardin

Mi interessa lasciare un documento della nostra epoca dichiara Gianni Berengo Gardin in molte interviste come in diversi suoi scritti. E Vera fotografia. Reportage, immagini, incontri, la personale al Palazzo delle Esposizioni di Roma lo dimostra. Un documento, quello realizzato dal grande fotografo, di cui l’elemento cardine è l’essere umano, in tutti i suoi possibili significati, senza alcuna distinzione.

L’occhio di Gianni Berengo Gardin si ferma su tutto quello che lo circonda, dato cheio vivo fotografando, senza pregiudizi e, soprattutto, senza giudizi. Non gli è mai interessato essere un artistaperché (le foto d’arte) copiano quello che hanno fatto i pittori; a me interessa la documentazione per tramandare ai posteri cose che scompaiono tradizioni paesaggi architetture”, essere “come uno scrittore per raccontare le cose”. E le ha raccontate. E tuttora le racconta benissimo. Poiché, nello spaccato di anni raccolti nelle sei sezioni espositive, sembrano non esistere temi e situazioni che il fotografo non abbia cristallizzato nei suoi scatti. Rigorosamente in bianco e nero, perché il colore distrae”, per un rinnovato parallelismo che lo stesso Gianni Berengo Gardin effettua con la scrittura (i libri sono in bianco e nero e io ho succhiato l’arte in bianco e nero), le sue fotografie parlano soprattutto del nostro Paese e dei suoi cambiamenti e trasformazioni avvenuti negli ultimi cinquant’anni.

Di fronte alle sue immagini non si sa quale sia l’elemento che eccelle: la perfetta inquadratura, l’equilibrio, l’attimo congelato. Ma forse è proprio la loro fusione che rende potente ogni suo scatto. Perché non c’è fotografia che non sia carica di una forte narrazione. Certo, i suoi reportage costruiscono delle narrazioni, ma anche isolando dalla serie un’unica immagine, si ricostruisce tutto il tessuto sociale e storico del momento reso immortale. Come ad esempio Le chiavi (1968): cinque uomini, vestiti, apparentemente, di tutto punto, sono ripresi dalla cintola in giù e, con le mani in tasca, tengono ben aperti i lembi della giacca così che le cinte dei loro pantaloni, costruiscano un nuovo orizzonte costellato dai considerevoli mazzi di chiavi. Ecco, questo è uno dei numerosi scatti realizzati nei manicomi di Parma, Gorizia, Firenze, contenuto nel libro Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, curato da Franco e Franca Basaglia, edito da Einaudi nel 1969, che vede una stretta collaborazione “tra il leader della psichiatria critica e i due esponenti di spicco del reportage italiano” (cfr. Maddalena Carli, L’indice dei libri del mese, settembre 2015). “Il difficile non era fotografare la malattia ma la condizione alla quale era costretto il malato” e, con dettagli come Le chiavi, Cerati/Berengo Gardin la descrivono con una forza inedita. Talmente forte, che, immediatamente, il volume acquista un profondo ruolo anche politico, contribuendo addirittura all’approvazione della nota legge 180 del 1978. Ma andiamo per ordine.

Gianni Berengo Gardin nasce a Santa Maria Ligure nel 1930. I suoi esordi fotografici, che risalgono alla metà degli anni Cinquanta, sono legati a Venezia, anche se, come lui stesso afferma, aveva iniziato a fotografare a Roma durante l’occupazione tedesca, nonostante fosse vietato realizzare fotografie. Sente come suoi maestri i fotografi della Farm Security Administration, ma ben presto se ne distacca proprio per il suo desiderio di raccontare le cose. Si trasferisce a Milano e inizia a lavorare come fotografo di professione, collaborando con diverse riviste e testate giornalistiche. Anche se, come lui stesso afferma, si dedica all’editoria per necessità, perché, in fin dei conti, i giornali non lo facevano lavorare un granché (al massimo poteva pubblicargli cinque foto) e perché un libro gli permetteva di raccontare le sue storie con centinaia di scatti, riuscendo così ad andare in profondità. Per questi motivi, Gianni Berengo Gardin ha al suo attivo ben 250 libri fotografici. E ama sottolineare che quello che gli ha aperto un sacco di porte è stato proprio il libro dedicato a Venezia. Un libro che (guarda caso) fu rifiutato in Italia, perché raccontava una Venezia diversa da quelle delle cartoline, e che invece trovò immediata accoglienza da un editore svizzero che, in soli ventidue giorni, ha prontamente realizzato il libro.

La sua collaborazione con grandi industrie (esempio fra tutti la Olivetti) o con architetti (Renzo Piano) gli hanno consentito di tramandare un preciso spaccato storico, come quello di raccontare le trasformazioni urbanistiche e paesaggistiche. Centinaia sono anche le mostre organizzate per il mondo, come diversi sono i riconoscimenti che ha ottenuto. Detto questo, la mostra al Palazzo delle Esposizioni, a cura di Alessandra Mammì e Alessandra Mauro, attraverso 250 fotografie (alcune delle quali divenute quasi delle icone, altre invece inedite), ripercorre la sua lunga carriera, attraverso i suoi principali reportage. Con un allestimento sobrio, cadenzato, che vede le sei sezioni con fotografie di medio formato approntate alle due pareti laterali e quelle di grande formato sistemate nella parete di fondo, nella mostra sono stati altresì coinvolti una serie di personaggi (per la precisione ventiquattro), da scrittori, artisti, architetti, registi, a giornalisti, fotografi, critici d’arte, nella scelta di una foto illustrandone la motivazione.

Così, il percorso espositivo è disseminato da brevi, non per questo meno intensi, scritti che tratteggiano, in alcuni casi Gianni Berengo Gardin uomo (penso a come lo ha descritto Vittorio Gregotti), perché delineato dalle parole di alcuni amici, in altri Gianni Berengo Gardin in azione (penso a quanto scritto da Renzo Piano), ma anche come le sue fotografie riescano a toccare determinate corde emotive e artistiche (penso a quello che ha scritto Jannis Kounellis). Fotografie, quelle esposte, parte dell’immenso archivio di Gianni Berengo Gardin che, con un accordo quadro dei primi anni 2000, vede la Fondazione Forma per la Fotografia depositaria e gestionaria dell’intero archivio, compresi negativi, provini, stampe, documenti e alcune delle sue macchine fotografiche.

Seppur nel corso degli anni diverse sono state le macchine fotografiche utilizzate, quella che maggiormente ha stata utilizzata è stata una Leica con grandangolo, obiettivo che gli ha permesso di entrare dentro le storie, dentro le persone. Senza dimenticare mai la sostanziale differenza tra una bella fotografia e una buona fotografia; e una vera fotografia: perché la buona fotografia non necessariamente è una bella fotografia ma, anche con evidenti errori tecnici, è capace di trasmettere infinite emozioni; mentre “vera fotografia” è la dicitura del timbro di colore verde (uno dei suoi colori preferiti) che egli appone come autentica il retro di ogni stampa fotografica ad indicare altresì quanto ogni scatto sia “vero”, colto dalla realtà e non un’illustrazione ottenuta da artificiose manipolazioni.

Così da Gli anni di Venezia, si passa a Milano. Il mondo del lavoro, a I manicomi. Zingari. La protesta; si prosegue con Il racconto dell’Italia. Ritratto, Figure in primo piano, concludendo il percorso con La casa e il mondo. Dai paesaggi alle grandi navi. Sezioni, queste, che vedono avvenimenti, personaggi e persone posti tutti allo stesso livello orizzontale di importanza, senza alcuna gerarchia che determini la subalternità di una cosa rispetto a un’altra. Su questa linea, troviamo lo spazzino, una barca funebre, una prima comunione, una ragazza in altalena, un venditore ambulante, dei seminaristi, Giuseppe Ungaretti con Milena Milani, Emilio Vedova, un lampionaio, un ciabattino, operai al porto di Genova, un postino, dei pescatori, dei senzatetto, la fabbrica Olivetti, delle contadine, dei pastori, dei circensi, i nostri migranti che dal sud si spostavano nel nord, Achille Castiglioni, Enzo Mari, Aldo Rossi, dei pugili, l’uscita dalla messa, una festa in periferia, Geri Palamara, gli zingari, L’Aquila all’indomani del terremoto del 2009 con la sua foresta di tubi innocenti, dei marinai, dei bambini attaccati dietro a un tram, Cesare Zavattini, Ugo Mulas, Gabriele Basilico, Leonard Freed, Bruno Barbey, Elliot Erwitt, Salgado, Giò Ponti, Roy Liechtensterin, Dino Buzzati, il cimitero di Staglieno, il dormitorio delle mondine, Peggy Guggenheim, Scanno (tappa obbligatoria quasi per ogni fotografo), un bimbo con la maschera, bagno turco (che immediatamente rimanda a una scesa del film Youth) e tanto tanto ancora

Info mostra

  • Gianni Berengo Gardin – Vera fotografia. Reportage, immagini, incontri
  • Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale 194 – Roma
  • 19 maggio – 28 agosto 2016
  • Biglietti: intero € 12,50 – ridotto € 10,00
  • Orari: domenica, martedì, mercoledì e giovedì 10,00-20,00; venerdì e sabato 10,00-22,30; lunedì chiuso
  • Info: t. 06 39967500 – www.palazzoesposizioni.it
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Daniela Trincia nasce e vive a Roma. Dopo gli studi in storia dell’arte medievale si lascia conquistare dall’arte contemporanea. Cura mostre e collabora con alcune gallerie d’arte. Scrive, online e offline, su delle riviste di arte contemporanea e, dal 2011, collabora con "art a part of cult(ure)". Ama raccontare le periferie romane in bianco e nero, preferibilmente in 35mm.

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