Vite migranti. Con umanità. Debutta il Progetto Human

Human

In principio una voce che si moltiplica e sdoppia, novella Eco, e svolge la storia di Ero e Leandro, stranieri l’uno all’altra, separati dal mare e da due città che devono odiarsi, eppure ugualmente amanti. Poi Enea, fuggito da una patria in fiamme per approdare – profugo – fra popoli ostili, e fondarvi la grande Roma. Qui affonda ciò che ci si ostina a chiamare radici, sembra suggerire Human, che debutta al Piccolo Teatro di Milano e si appresta a partire per una lunga tournée. Un viaggio, come lo fu quell’Odissea che continua ancora oggi, modificando soltanto lineamenti dei naviganti e alcuni dei porti di partenza. Non è più la fame di scoperta a sospingere, ma resta il desiderio di costruzione di un futuro, di un forse intravisto che basta a trovare la forza di lasciare tutto ciò che chiamiamo casa. Magari portandone con sé un simbolo cui aggrapparsi: «quante saranno le chiavi di casa, negli zaini, nei fagotti, in fondo al mare». Chiavi di case in cui si è consapevoli di non tornare, perché se a cancellarle non provvede la guerra o la devastazione, sarà il mare a impedire a molti l’approdo.
Di migranti si parla, ragiona, si fa arte, in un presente a cui la migrazione è connaturata. Molti avanzano proposte di soluzioni.

Per restituire umanità, tuttavia, diventa necessario mutare lo sguardo. Per questo Human non è uno spettacolo – o sarebbe quantomeno limitativo definirlo tale – è un progetto, a tutto tondo. In cui senza soluzione di continuità si affastellano voci, nomi, storie: semplicemente vite, in un percorso solo apparentemente frammentato, dove tutto ciò che è arte trova spazio, anche Caravaggio.

E il teatro smette di essere tale per farsi spazio condiviso, all’interno del quale si evocano esseri umani: Kaled, costretto a lasciare la sua terra per non vivere nascosto a sè stesso, Ahmed, che sul barcone riempie la testa di musica, per non sentire ciò che accade nella stiva a chi non ha pagato abbastanza, e ancora Farida e il suo corpo su cui si preme lo scafista, con un solo ordine: continuare a guardare il mare.

Storie offerte allo spettatore senza filtri, direttamente, scarnificate di effetti scenici dove non siano strettamente necessari, spogliate di ciò che è artificiale perchè non sfugga ciò che è vivo. La regia di Marco Baliani svapora nella forza della realtà.

In uno spazio che inizialmente appare indefinito, come se a cadere non fosse solo la quarta parete ma lo spazio scenico nella sua interezza, un sapiente gioco di luci disegna solo i volti di chi racconta, che emergono dal buio per dirsi. Poco altro è necessario a creare un crescendo emotivo mentre il fascio di luce si allarga ad abbracciare abiti rossi che paiono pulsare, vividi, fino ad allargarsi e a moltiplicarsi in un muro di abiti dismessi, vissuti, abitati.

Ad aver voce sono uomini e donne, su entrambe le sponde del mare e tra i flutti. Ci sono le domande, le contraddizioni. Ci sono i reporter, i soccorritori, c’è chi è in mare e deve scegliere cosa è giusto, quando non esistono consigli validi. Human non risponde. Chiede, crea sospensioni, accompagna a non distrarsi da ciò che ci accade intorno.

E riesce efficacemente nel suo intento perchè racconta con garbo. Rifugge le emozioni strappate a forza a chi osserva, le commozioni facili e gridate, sfiora con eleganza ma non per questo elude neanche un aspetto di un tema complesso e pressante.

Per lo spettatore c’è spazio per riflettere, emozionarsi e anche ridere, mettendo a nudo le proprie piccole e grandi ipocrisie, le certezze cui per dissolversi è sufficiente un soffio di vento, o meglio, un’onda di mare grosso.

In meno di due ore di un flusso di coscienza denso di incontri ci si trova di fronte a ciò che eravamo: migranti a nostra volta in un paese che sentivamo alieno sognando di essere personaggi da romanzo. Ci confrontiamo anche con ciò che siamo oggi: persone che hanno imparato a dire “nero”, in pubblico, perchè così si fa, così si deve ed è educato, ma che ostinatamente, mentre lo dicono, pensano “negro”.

A dar corpo alla pièce un gruppo quasi interamente sardo (terra di chi conosce il mare e la fatica). Sul palco quattro giovani validi attori che offrono anche uno spaccato di come ciascuno di noi – nel quotidiano – si interroga sul tema, tra una cena fra amici e un film: Elisa Pistis, David Marzi, Noemi Medas e Luigi Pusceddu. Di mano sarda sono anche le affascinanti scenografie composte con gli abiti e i loro colori sfaccettati – opera dell’estro di Antonio Marras – e le musiche orginali – ora oniriche ora dissonanti – di Paolo Fresu: i due aspetti migliori, insieme all’uso evocativo delle luci, della messa in scena dello spettacolo sul piano tecnico. A tenere le fila dell’insieme Marco Baliani, composto nelle sue vesti di narratore nella gran parte della pièce. Accanto a lui, a sostenere i passaggi che da quotidiani si fanno persino epici, Lella Costa, mattatrice come d’abitudine, che col consueto talento squaderna tutti i suoi registri, dall’ironia che sfiora la caricatura all’empatia autenticamente umana e mai eccessiva. Ciò che ne risulta è uno spettacolo che insieme alle domande suscita un emozionatio consenso, capace di stringere lo stomaco fino a togliere le parole, per poi riportarle alle labbra per chiedersi, con Quasimodo: «come potremo noi ancora cantare?»

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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