Apologia dell’attore. Roberto Herlitzka è Minetti

Roberto Herlitzka

«Il mondo pretende di essere divertito. Invece deve essere turbato». Il grande attore è capace di fare entrambe le cose.
Minetti, in scena al Piccolo Teatro di Milano dimostra questo e anche molto di più. In primo luogo si tratta però di una approfondita, densa e intensa riflessione sul teatro, su ciò che lo crea, lo muove e lo fa esistere. E sul modo al quale i personaggi prendono vita sulla scena, prendendosi – e fagocitando – la vita di chi li incarna.

Questa pièce, che meglio sarebbe chiamare col suo sottotitolo, “ritratto dell’artista da vecchio”, fu cucita da Thomas Bernhard sulle misure e il volto di Bernhard Minetti, per molti il più grande degli attori tedeschi di ogni tempo.
Minetti viene ritratto vecchio, ormai dimenticato da tutti, in attesa di un impresario che gli ha promesso, alla fine di decenni di ostracismo, di realizzare il proprio sogno artistico. Tornare in scena e vestire i panni di Re Lear, ruolo amato e agognato da tutta una vita.
Nella elegante eppure decadente hall di un albergo si consuma l’attesa, mentre l’anziano attore recita un monologo a più personaggi. I frequentatori dell’hotel infatti gli passano accanto, coperti da una maschera come quella che l’attore custodiva – opera di un celebre artista – proprio per rappresentare Lear. Scivolano come silhouette, figure di un mondo a cui l’attore rimane alieno, e insieme burattini inconsapevoli di una realtà che solo lui sembra avere gli strumenti per analizzare.
Nel tempo dell’attesa di un impresario che pare non arrivare mai Minetti ripercorre la propria vita, la gloria e la caduta del più grande fra gli artisti, divenuto una vergogna nazionale.
E nel farlo descrive l’essenza del teatro e dell’attore, essere folle che «ha fatto della pazzia della propria arte un metodo»,

Una pazzia usata per rapportarsi a un pubblico che esalta e poi cancella, che si aspetta la ripetizione di ciò che già conosce, perchè in ciò che è classico trova la propria rassicurazione. Ma all’attore, al pazzo, spetta scardinare quelle certezze.

Minetti rivendica di essere stato dimenticato per aver voluto rifuggire il classico: il solo modo per essere autentico. Così facendo l’attore però impone la propria «presenza inquietante», che deve contrastare il pubblico, non compiacerlo. «Recitare contro» un pubblico che deve essere «terrificato». Solo così il teatro trova il suo senso pieno.
C’è rabbia e rivendicazione, nelle parole di Minetti. Ma più passano le ore, più il mutismo ostinato e quasi assoluto dei frequentatori della hall sembra scalfire il vecchio attore. E la sua granitica certezza sembra sfarinarsi, in direzione di una ricerca di attenzione che appare diventare via via più disperata. Nelle ossessive ripetizioni dei vecchi, la fragilità del grande uomo ormai solo si fa sempre più vistosa, sempre più totale. Fino a che ciò che resta è la più totale delle solitudini, immersa in una tempesta di neve, mentre al pubblico non resta che chiedersi se e cosa è accaduto davvero. Quali voci l’attore stava cercando. E soprattutto dove. Se stava parlando a qualcuno o forse piuttosto soltanto a se stesso.
E quale tipo di buio è calato su di lui, con l’ultimo gesto.
Roberto Andò firma una regia molto classica, dove nulla è lasciato al caso in termini di scenografia. Persino l’apertura delle porte è accompagnata dal rumore di ciò che avviene fuori. Più interessante è invece la resa dei personaggi di contorno. Il ruolo di Verdiana Costanzo, Matteo Francomano, Nicolò Scarparo, Roberta Sferzi e Vincenzo Pasquariello, evoca senza imporle diverse interpretazioni, per lo più oniriche e finali.
A interpretare il più grande attore tedesco si è operata la migliore delle scelte possibili, chiamando quello che probabilmente è il migliore degli attori italiani quanto a forza espressiva.
Roberto Herlitzka porge un testo estremamente complesso e profondamente drammatico, riuscendo a strappare persino le risate.
Ma soprattutto fornisce una prova di intensità straordinaria. Tratteggia la forza e la fragilità, la rabbia e la sconfitta come solo i grandi sanno fare. Sciamanico nei sussurri, travolgente nei sentimenti forti, padroneggia il teatro con assoluta maestria. Riesce a farlo rifuggendo i toni plateali, scegliendo gesti piccoli che talora – come sul finale – aiutano l’evocatività del testo.
Mostra a un pubblico rapito l’intensità e il cuore che l’attore autentico possiede, facendo apparire questo spettacolo calzato sulla propria pelle come doveva esserlo su quella di Minetti. La perfetta dimostrazione del rapporto fra teatro e «vita: una farsa, che i furbastri chiamano esistenza».

+ ARTICOLI

Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e statistici. Cliccando su "Accetta" autorizzi tutti i cookie. Cliccando su "Rifiuta" o sulla X rifiuterai tutti i cookie eccetto quelli necessari per il corretto funzionamento del sito. Cliccando su "Personalizza" è possibile selezionare quali cookie attivare.