L’amara ironia della realtà, tra gli Animali da bar

Foto di Laila Pozzo

Ogni città, come ogni ecosistema, ha i suoi punti nevralgici e la sua popolazione. Uno dei centri necessari al tessuto urbano è il bar, e dentro di esso si muove una fauna di esseri viventi, di Animali da bar” La Carrozzeria Orfeo, al Teatro Elfo Puccini di Milano, prova a raccontarne alcuni, con la regia di Alessandro Tedeschi. C’è un vecchio razzista che ha scelto di autoesiliarsi dal mondo, suo nipote Milo, imprenditore in cremazioni di animali da compagnia, c’è Sciacallo, un ladruncolo di quartiere, Swarosky, uno scrittore cinico incapace di riempire la pagina bianca, e soprattutto la rude barista Mirka, badante del vecchio e madre surrogata del figlio di un inguaribile sognatore, che mangia solo mele e sembra capitare per caso nella bettola di provincia dove tutto accade. L’unico capace di spezzare, col suo ottimismo naif, la coltre di cinismo e fallimento che ammanta gli altri frequentatori del bar.
Animali della specie “homo”, che si lasciano passare addosso un esistenza fatta di battute da caserma e lessico quanto più quotidiano non si potrebbe.

Una prima parte scritta con un ritmo indiavolato, che affastella un gran numero di battute il cui obiettivo appare essere la pura evasione, la risata crassa e la volgarità esibita.

Una ristata amara che tra una birra e una vodka rispecchia senza sconti ciò che ci osserviamo accanto tutti i giorni, tra accuse al diverso e virilità messe in dubbio. Del resto siamo al bancone di un bar da quartiere malfamato, una mano di belletto non lo avrebbe più reso tale. Ma nella scrittura rapida di Gabriele di Luca c’è qualcos’altro che una galleria di sconfitti che vagolano come falene intrappolate nell’aria fumosa e pesante del bar disegnata dalle luci di Giovanni Berti.

Ci sono i non detti: un ladro che vuole morire per attirare l’attenzione dei compagni di scuola, un attivista che non reagisce alle violenze della moglie, ma soprattutto una barista che si tiene compagnia con le canzoni dei cartoni animati. Non solo ironia, perché è dalle favole che la storia cambia, che qualche crepa sembra rompersi, le solitudini si incontrano, goffamente, camminando sul filo, giocando ad avvicinarsi e ad allontanarsi. Chi sono allora questi volti? Bambini che giocano a usare la violenza dei grandi, grandi perduti che giocano a fare i bambini, cercandone spasmodicamente l’innocenza?

Il tono dello spettacolo cambia, come sembra cambiare in positivo ciascuno dei personaggi. Ognuno di loro sembra pronto ad affrontare se stesso e i suoi fantasmi, per disegnare finalmente il futuro che sogna. E a combattere con l’unico che non sembra coinvolto da questo mutamento repentino: lo scrittore.
Si può davvero credere che tutto possa accadere? Che i sogni si realizzano, come nelle favole? E se fosse davvero il più cattivo, il solo a tenere le fila della realtà?

Uno spettacolo insolito, che pur scivolando – consapevolmente? – a tratti fuori fuori dai margini, dal un lato dell’esasperazione, dall’altro della retorica, riesce a mantenersi efficace nei suoi punti cardine.
Sa far coesistere risata e riflessione, dando al pubblico ciò che si attende, senza mai lasciare passivo lo spettatore. Fa sintesi di puro intrattenimento e temi etici sfiorati con tatto.
Un gioco di cambiamento di ritmi che riesce a funzionare e ad essere comprensibile e che ha il merito di difettare del tutto in prevedibilità. A garantire forza all’intero lavoro è un abile gruppo di attori, dal già citato De Luca a Massimiliano Setti, Paolo Li Volsi Pierluigi Passino. Impreziosisce il tutto la voce di Alessandro Haber prestata agli sproloqui di un vecchio rabbioso e stanco.
A svettare è però la straordinaria interpretazione di Beatrice Schiros, che nella sua Mirka sa fare sintesi di tutti gli estremi che lo spettacolo tocca. Dalla ruvidezza al romanticismo, dalla fragilità al distacco, tutto – soprattutto in lei – può suonare vero e coerente.
Ma un cambiamento che non poggia su basi solide non può essere vero. Il figlio frutto di questa parabola  non può che nascere morto, abortito. Non importa se i personaggi che si muovono sul palcoscenico lo abbiano fatto davvero o siano ombre nella mente di un artista forse non del tutto fallito. Nessun lieto fine, non può esistere. Nessuno può davvero uscirne vincitore, perché quella che si è raccontata non è una favola underground ma una spaccato di realtà, che lascia in sottofondo  l’eco di una risata sardonica.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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