PordenoneLegge #3. Storie di uomini per raccontare l’assoluto. Cristicchi e il Secondo figlio di Dio.

Cant-attore. Si definisce così ormai, Simone Cristicchi, che alla carriera di cantante affianca ormai da tempo quella di protagonista di fortunati spettacoli teatrali in giro per la penisola. Associati, quando non tratti, da sue precedenti pubblicazioni. È ancora questo il caso: lo spettacolo con il quale sta calcando i palcoscenici dell’ultima stagione teatrale e di quella che sta inziando, Il secondo figlio di Dio, è anch’essa una rielaborazione del suo ultimo romanzo, presentato nella prima giornata di Pordenonelegge. Romanzo, ma non per questo esclusivamente opera di fantasia.

Tutti i suoi lavori, rivendica il cantautore romano, muovono infatti dall’esigenza di raccontare una storia. Possibilmente dimenticata, segreta, nascosta. Dalla voglia di dare voce a chi non ce l’ha.
È accaduto con chi viveva dentro i manicomi prima della legge Basaglia (da lì nacquero il brano Ti regalerò una rosa, con cui vinse il festival di Sanremo 2007, e un documentario), con i minatori del paesino toscano di Santa Fiora, il cui coro gli fece compagnia su molti palchi della penisola, intonando canti da osteria «per chiamare la vita a sè». È accaduto anche con la vicenda dell’esodo del popolo giuliano dalmata, quel nome che al simone ragazzino sembrava quello di un patriota o di un letterato e invece apparteneva «ad un popolo maltrattato dalla storia». Storie di collettività, che Cristicchi ha sempre voluto raccontare facendosene parte, portando la storia dei molti ad un uno, un singolo, una vita necessaria. «Quando parti da una storia e la rendi portabile, la rendi immortale». E allora quale miglior modo di dare una misura dell’esodo istriano se non partendo da un oggetto di quei muri di masserizie. Osservarlo. Leggere il marchio dell’esodo che porta inciso. Nome, numero di colli, città di provenienza. E ricostruire quel frammento di storia nel suo valore universale.

L’uno può aprire mondi. Il protagonista del suo nuovo lavoro ne è l’esempio lampante. David Lazzaretti è un nome che a molti non dice nulla. Ma nella Toscana del 1870, a poca distanza da Santa Fiora, lo chiamavano in molti modi: «per lo Stato un sovversivo, per la Chiesa un eretico, per la scienza un mattoide afflitto da mania religiosa. Per la sua gente, un santo». Non resta che scegliere. Una storia, quella di questo barrocciaio mistico e carismatico, che ha inseguito il cantautore per anni, da una bancarella dell’usato romana ad Arcidosso, il paese del monte Amiata nel quale ancora oggi molti credono che nelle sue vene scorresse il sangue di Cristo tramandato lungo i secoli. Il secondo figlio di Dio, come titola il romanzo.

Anche più prosaicamente, si tratta senz’altro di una figura interessante. Profeta e fondatore di una chiesa ispirati a principi vicini ad una sorta di francescanesimo ottocentesco, puntava a «scardinare qualsiasi certezza». Predicava che in ciascuno esistesse una scintilla di divino, la cui tensione spirituale doveva essere in equilibrio con una visione comunitaria degli aspetti materiali, che si concretizzò nella fondazione di quelle che potrebbero essere ritenute le prime forme di cooperative sociali e di società di mutuo soccorso, sviluppate fra i suoi adepti ai piedi del Monte Labbro prima, e in Francia poi. Visto dalla Chiesa come utile a una rivolta popolare contro il neonato stato italiano, fu poi spinto all’autoesilio dal Sant’Uffizio come eretico, quando il suo carisma – che lo rendeva capace di parlare con cardinali e uomini di potere – non potè più essere tenuto a freno.

Nella storia di Lazzaretti coesistono anime composite e aspetti ancora in gran parte da svelare, un progetto mistico coniugato a uno che alcuni erroneamente definiscono socialista, anche se il socialismo, secondo Lazzaretti, «camminava su una gamba sola», quella della materialità. Un culto, quello per l’umile carrettiere, ancora vivo e attivo, capace ancora oggi di colpire chi, come Cristicchi, si trovi a venirne a contatto, sia per gli accenti rivoluzionari per l’epoca della sua predicazione, sia per una sorta di capacità di essere «sospeso fra terra e cielo». Una fascinazione curiosa e potente, che il romanziere-cantautore mette in bocca alla voce del suo romanzo: , il carabiniere che uccise Lazzaretti nel corso di una processione. Inviato a farlo per ordini superiori, una volta eseguito il compito, qualcosa di lui cambiò profondamente. Questo doveva avvenire a chi incontrava Lazzaretti.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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