National Geographic, la Grande Avventura compie 125 anni

Non è solo fotografia: è la storia di una rivista, il “National Geographic”, che ha usato la fotografia, fin da quasi subito, come sua ancella. Anche prima del gennaio 1905, quando su tutta pagina uscirono le immagine fotografiche della città proibita di Lhasa in Tibet, trovata che fa salire esponenzialmente abbonati e lettori.

La fondazione della rivista risale al 1888 e la mostra, famosa nella sua ciclicità annuale, quest’anno è indirizzata al festeggiamento di questo importante 125° anniversario proprio tramite quel mezzo che il National Geographic ha adottato consapevolmente come suo testimone: la fotografia. Ne fanno da bandiera due immagini che sono entrate nell’immaginario comune dell’intera umanità contemporanea: il ritratto della ragazza afgana di Steve McCurry, famoso fotografo della Magnum, e quello dell’esploratore statunitense Robert Edwin Peary, diventato famoso per essere stato, presumibilmente, il primo ad aver raggiunto il Polo Nord il 6 aprile del 1909. La National Geographic Society sostenne pienamente la sicurezza dell’impresa avvenuta e il ritratto, in tale modo, oltre ad essere una rappresentazione di un momento importante per la ricerca e le scoperte geografiche si fa portavoce anche di una presa di posizione che, in quegli anni, non era per nulla scontata.

Il National Geographic racconta un guardare oltre – guardare alla scoperta – e fa immaginare, fa abbandonare una dimensione fisica per proiettarti nel mondo. La natura, la terra, i mari, gli oceani, le scoperte scientifiche, il mondo intero sono da sempre i protagonisti di questo megazine che venne alla luce come austera rivista dalla copertina color terracotta nell’ottobre del 1888, bollettino della National Geographic Society fondata nel gennaio dello stesso anno per promuovere la cultura geografica.

La bandiera della Society a strisce blu, verde e bruna – a simboleggiare l’aria, il mare e la terra – ha sventolato in ogni dove, promuovendo gran parte delle spedizioni che hanno fatto la storia come la scoperta, nel 1912, di Machu Picchu da parte di Hiram Bingham, pubblicata sulle pagine della rivsta nell’aprile del 1913.

Numerose, nella sezione iniziale del percorso espositivo, sono le immagine che testimoniano lo sventolio della conquista esplorativa della Society, un ottimo start up per far rendere conto di come i confini della scoperta siano in continua espansione: Paul Hagelbarger durante la spedizione in Alaska del 1918; Baylor Roberts per quella in Malesia nel 1937 e Al Giddings che fotografò l’oceanografa Sylvia Earle mentre scende a 366 m di profondità con la bandiera nel 1979.

A differenza di una rivista come Life – improntata su una risoluzione fotografica di primo piano – il National Geographic, fotograficamente, è cresciuto piano piano, inanellando negli anni un’impronta sempre più visuale: è di J. Q. Lovell la prima storica fotografia della rivista – la prima fotografia, inoltre, di natura in esterni – che immortala nel 1889 l’isola di Herald nell’Artide russa; è del 1896 la fotografia di una donna Zulu in Sudafrica, prima donna a seno nudo fotografata nella rivista; del 1910 circa sono le prime immagini a colori del Giappone: Eliza Scidmore (co-direttore della rivista) fu la prima ad introdurre la tecnica delle sue fotografie del mondo giapponese colorate “a mano”.

I primi fotografi della rivista non erano professionisti, potevano essere anche semplici membri della spedizione o gli stessi redattori della rivista, per poi, negli anni, prendere piede sempre più un prfessionismo mirato all’equilibrio tra testo ed immagine. Fino ad annoverare, a tutt’oggi, tra le proprie fila esponenti come Steve McCurry, la cui fama è riconosciuta in tutto il mondo, in mostra poco tempo fa proprio nella Capitale presso il Macro di Testaccio con un’esposizione dal grande seguito di pubblico e di critica.

La mera testimonianza dell’immagine, nel tempo, si è fatta affiancare anche da un’estetica riconoscibile, un modo per amplificare l’empatia visiva con il lettore, per avere uno stile National Geographic, entrato nell’immaginario comune come nel caso del ritratto della ragazzina afgana di McCurry.

Scriveva Claude Lévi-Strauss:

“L’uomo deve rendersi conto che occupa nel creato uno spazio infinitamente piccolo e che nessuna delle sue invenzioni estetiche può competere con un minerale, un insetto o un fiore. Un uccello, uno scarabeo o una farfalla meritano la stessa fervida attenzione di un quadro di Tiziano o del Tintoretto, ma noi abbiamo dimenticato come guardare.”

In parte, forse, le immagini del National Geographic ci aiutano a sanare proprio questa imperdonabile dimenticanza.

Il cursore diretto sulle immagini visualizzerà le didascalie; cliccare sulle stesse per ingrandire.

Info mostra:
National Geographic, 125 anni. La Grande Avventura
a cura di Guglielmo Pepe
Palazzo delle Esposizioni, Roma
fino al 2 marzo 2014

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Laureata in Lettere e Filosofia indirizzo giornalistico con una tesi sulla fotografia psichiatrica, con citazione di tale ricerca nella versione anastatica di “Morire di classe” (Einaudi, 1969), fotoreportage di Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin che nel 2009 Duemilauno-Agenzia Sociale ha ristampato, è giornalista pubblicista dal 2008. Dal 2010 lavora presso Palombi Editori in mansioni commerciali e di distribuzione. Ha scritto per numerose riviste d'arte e curato mostre seguendo autori che praticano il linguaggio fotografico e progetti di critica fotografica. Tale attività prosegue attualmente.

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