Muri. Giulia Lazzarini presta voce ai manicomi prima e dopo Basaglia.

Chi è il matto? O meglio: chi era, prima. E chi è stato, dopo. È su questa fondamentale distinzione che si fonda Muri, andato in scena al Teatro Giuditta Pasta di Saronno.

Mariuccia arriva all’Ospedale Psichiatrico di Trieste con la terza media in tasca e una famiglia da  manterenere, e si adatta a far l’infermiera. È il 1968, il dopo è ancora lontano. E Mariuccia scopre il manicomio quando ancora era tale, prima di Franco Basaglia. Lo vive quando i matti sono i rifiutati dalla società, gli scomodi, i derelitti. Quando la cura consiste nell’ammassare centocinquanta donne in uno stanzone per dodici ore, senza che possano muoversi, nè tantomeno lavarsi autonomamente.

Immobili, come i pezzi di mobilio che costituiscono la scena, e come il telo bianco di cui il regista Renato Sarti – anche autore del testo – si serve per richiamare il Padiglione M, quello delle tranquille. A portare là le malate non è soltanto la forzatamente imposta apatia di donne ormai divenute corpi vuoti costrette ad abdicare al loro stato di esseri umani. Loro sono quelle passate attraverso tutto il campionario: docce fredde, camicie di forza, psicofarmaci, e poi elettroshock – perfetto per la depressione – e lobotomie.
Mariuccia vede, a poco a poco capisce e comincia a farsi insofferente, ma non può altro che eseguire i compiti imposti dalle regole e da caposala che dimenticano la propria umanità per sfogare su chi è più debole la propria violenza e frustrazione.
Poi, però, arriva la rivoluzione. Arriva il dottore che lava per terra, come un inserviente qualsiasi. Nel 1971 arriva l’equipe di Basaglia e tutto cambia. I malati ritornano uomini, ritornano a uscire, a parlare, a vivere, ad andare al mare e fra la gente “normale”. A ritrovare sè stessi e spesso una parte di equilibrio.

«Nessuno è violento con te, se non lo sei con loro», nota Mariuccia ingenuamente, scoperchiando però con delicatezza il non detto di un luogo dove erano rinchiuse per alcolismo mogli rifiutate o parenti che più nessuno veniva a cercare.

Ma d’improvviso il manicomio non esiste più, e anche Mariuccia cambia. Scopre la politica, il Movimento basagliano prima e le rivendicazioni sociali poi, e i muri cominciano a crollare, prima quelli di pietra e poi tutti gli altri, il manicomio che sta nella mente degli altri.
A dare corpo a una Mariuccia ormai in pensione è Giulia Lazzarini, ma sembra quasi che così non sia, perchè l’attrice scompare totalmente dentro all’infermiera, che racconta i propri ricordi con il clinico distacco di chi descrive soltanto la normalità della propria esistenza. La scelta attoriale è precisa e netta: paradossalmente, l’unica concezione alla teatralità è l’elemento che vuole sottolineare la veridicità: il dialetto – tradotto nei passaggi non immediatamente limpidi – nel quale Mariuccia si esprime.
Niente di più. La Lazzarini è ferma per quasi tutto lo spettacolo, dietro a un leggìo che rischia di essere a propria volta un muro, da un lato del palcoscenico. A occupare la scena sono soltanto i giochi di luce di Claudio de Pace, e le rarefatte musiche di Carlo Boccadoro. L’attrice non interpreta mai, si fa soltanto tramite.
Scelta radicale e pericolosa, che per evitare il rischio di esacerbare i toni di un tema tanto delicato, finisce col sacrificare emozioni e teatralità di un copione potenzialmente di grande impatto, trasformando una rappresentazione teatrale in qualcosa di molto vicino a una lectio magistralis, talora indulgendo nel didattico. Appare evidente come si sia puntato ad insegnare qualcosa al pubblico, facendo, pur se indirettamente, parlare un’esperta di un argomento nel quale si vuol manifestare l’impellente necessità di orientarsi e possibilmente approfondire, anzichè occuparsi di emozionarlo e farlo sentire pienamente partecipe. Si è forse creduto che a ciò bastasse la forza intrinseca nel tema, condannando tuttavia così un testo potenzialmente molto valido a una messa in scena poco convincente, malgrado la scelta sia gestita in modo pienamente coerente, non riuscendo tuttavia a a togliere allo spettatore la forte sensazione che manchi la resa vivida di quel conflitto che i teorici identificano come componente necessaria della messa in scena teatrale.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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