Da Goldoni a Fassbinder. Das Kaffehaus o della perdita dell’innocenza

immagine per Das Kaffehaus, Reiner Fassbinder. Compagnia Teatro Rossetti

La forma di un testo e la sua lettura, nel momento in cui esso assume lo status di classico, è la migliore e l’unica possibile? L’interrogativo si ripropone spesso e in ogni contesto artistico, ma nel teatro, mutevole e irripetibile per definizione, acquista accenti caratteristici.
Se lo è indubbiamente chiesto anche Reiner Fassbinder, quando ha scelto di mettere mano alla Bottega del caffè, che la compagnia del Teatro Rossetti ha portato al Teatro Fontana di Milano.
Un testo, come il suo autore, che hanno attraversato i secoli. La schiavitù al denaro – che attanaglia il giovane Eugenio fino a privarlo di tutto e guida le scelte del biscazziere Pandolfo e del conte Leandro, stringendo in un cappio tutta Venezia, va oltre il tempo.
Fassbinder ha così potuto riscrivere la sua Das Kaffehaus senza apportare cambiamenti al testo goldoniano, con una fedeltà quasi sorprendente,  che la regia di Veronica Cruciani colora di qualche nota del tedesco dell’autore bavarese e una martellante, ossessiva conversione di ogni somma di denaro al conio d’oggi.

Lo sfavillante ballo in maschera e i pizzi di un carnevale posticcio come le risate sguaiate che vorrebbero saturare una Venezia in cui si sfumano i confini di tempo e di spazio, sono una messa in scena che si pretenderebbe senza fine, prova ne sia che nessuno esce mai dal palcoscenico. Ma non bastano a tacere la verità.

È qui che la mano di Fassbinder si fa largo, necessaria, a strappare le maschere e mostrare i volti. A esporre al pubblico una galleria di smorfie, di uomini e donne perduti.
Dal vizio del gioco, senz’altro. Ma non soltanto. Non basta identificare fuori di sé il nemico da combattere: alla fine dei conti, ciascuno non è vittima altro che di se stesso: della propria fame di potere che muove il conte Leandro, del pettegolezzo, come don Marzio, persino del classismo dell’apparentemente misurato caffettiere Ridolfo.

Ma anche di un amore, quello che consuma Vittoria, del quale non si è capaci di rinunciare alla sottomissione, o della seduzione di Rosaura usata come arma ma capace di fare dei carnefici vittime e viceversa. Nei brevi istanti in cui la maschera cade si resta nudi e a poco vale implorare comprensione ed empatia.

Ciò che rimane di sé a chi osserva non è che un nucleo marcio. I personaggi che si muovono sulla scena sono una galleria di piccole e grandi miserie, che Fassbinder precipita in una torbidezza sempre più soffocante.

Col procedere della vicenda le atmosfere cupe si fanno via via più pesanti, e sotto luci livide si smaschera una pretesa mistica della virilità e del possesso carnale che sembra spingere al disgusto di tutto ciò che è relazione tra uomini e donne.

Non resta che un barlume apparente di innocenza, derisa, umiliata: quel Trappola servo di tutti che si dà senza chiedere nulla in cambio, e che nel mezzo di una sessualizzazione esibita tenta di offrire salvezza e amore. Destinati a essere respinti, perchè quella società di lui non può accettare nulla.

Così, mentre le musiche settecentesche si trasformano in suoni da discoteca, Goldoni cede il posto a un Fassbinder senza scampo. Per sopravvivere non resta che adattarsi. Far coincidere il corpo e la maschera, il femminile con questo maschile, il simulacro di virilità esibita con tutto il resto: non c’è più spazio per la purezza, per sé stessi, uomini o donne che si sia.

Nessuno si salva, e tutto ciò che sarebbe potuto essere sprofonda in una nebbia dentro cui non resta altra scelta che «morire, ma non del tutto», abbandonarsi a una trasformazione quasi ferina dove solo chi è guidato dall’istinto sopravvive.

Il progetto Das Kaffehaus si assume il compito di conciliare due apparenti opposti grazie a una regia coraggiosa e accurata  e a un vasto gruppo di interpreti di  livello: Filippo Borghi, Ester Galazzi, Lara Komar, Riccardo Maranzana,  Francesco Migliaccio, Maria Grazia Plos e Ivan Zerbinati. Spicca però il Trappola di Andrea Germani diventato archetipo e simbolo di una caduta inesorabile. Ne risulta una riuscita e non semplice sintesi che rende merito al testo goldoniano e alla visionarietà di Fassbinder schivando la caduta nel didascalismo del primo e nell’autoreferenzialità del secondo.

I due autori si scoprono così tutt’altro che lontani, capaci di compenetrarsi efficacemente, e di raccontare, anche in una veste nuova, senza che nessuno ne risulti tradito.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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