Divina. Memorie di una drag singer d’antan, con e senza cerone.

immagine per Divina

È un tuffo nel passato quello che si compie quando si prende posto all’OFF OFF Theatre, da poco aperto nel centro di Roma, quando si vede arrivare in scena, trafelata, Divina. O più precisamente Di-vi-na”, completo di trattini. Drag queen o meglio, spiega, drag singer, in ritardo per il proprio show.

Quello che avviene tra pubblico e interprete si mostra quindi subito come un incontro alla pari, tra confessione, racconto ed esibizione elegante di un’artista che proietta immediatamente lo spettatore in uno dei fumosi café chantant parigini e berlinesi dove negli anni Venti, prima che le ombre nere dei totalitarismi si allungassero sull’Europa, dive senza tempo come Marlene Dietrich (E Marlene D. si chiama, non a caso, il personaggio che ha reso famoso l’interprete che oggi veste i panni di Divina) giocavano con il proprio genere, in un tempo dove l’ambiguità e l’arte avevano spazio e incuriosivano senza prendere necessariamente una connotazione politica.

Ed è un’eleganza simile quella che Divina rivendica per sé, tra vestiti colorati e svolazzanti, in una lunga teoria di cambi d’abito, passando in rassegna e dando voce a tutte le grandi “divine” che la storia ha visto succedersi, dando corpo all’iconografia artistica e musicale cui la comunità LGBT è affezionata, da Judy Garland a Patti Pravo.

Quella di Divina, alias Riccardo Castagnari, non è però soltanto esibizione di una drag queen a misura di buona società, dove la buona tecnica vocale si mette a servizio di ricordi dolci per chi si sente parte della comunità LGBT, con il sostegno, al pianoforte, di Andrea Calvani.

Sul palco romano scena e fuori scena infatti si fondono. Divina ha scelto di mettersi a nudo, di offrirsi al pubblico per ciò che è, aprendo allo spettatore  uno sguardo su un mondo spesso investito di pregiudizi, senza per questo volerlo compiacere: “Non ho bisogno di comprensione o pietà, voglio solo mostrare orgoglio per ciò che sono”.

Coglie quindi l’occasione di dare la stura ai ricordi.

Anch’essi però sembrano rifarsi a un tempo preciso: quello dove i giovani gay si incontravano nei vespasiani pubblici, dove gli abiti da donna erano arte e ogni ambiguità di genere alla luce del sole era respinta con forza.

È una donna matura quella che ride e sorride di sé, provoca evitando con cura l’eccesso, ed evoca le proprie memorie e i clichè del giovane gay che fu, con tanto di padre militare. Frammenti che la comunità gay riconosce e identifica con esattezza, dai nomi delle vittime di AIDS – quando era «la peste gay» – ricamate su una coperta patchwork che ha fatto la storia, fino all’uso del verbo battere che non significa prostituirsi, ma cercare qualcuno che ci sta: «corrisponde all’inglese to cruise», come spiega Divina in una citazione letterale di Mario Mieli che non sfugge a chi ne sia avvezzo.

Una rete di rimandi che appare frutto di una scelta precisa e a suo modo suggestiva, anche se ci si chiede quanto, a un pubblico digiuno di ciò a cui ci si rifà, non rischi di trasmettere messaggi che mostrano la corda del tempo, per una comunità che oggi si è allargata ad accogliere le più diverse soggettività ed esperienze.

Eppure, come tutti gli artisti, anche e soprattutto per una Divina è bene prestare attenzione al confine tra palcoscenico e vita. Tra comicità ed e l’emozioni intense suscitate dagli eventi che segnano un’esistenza, c’è spazio anche per l’attualità. Per la discriminazione ancora dolorosa realtà, il tema del coming out, il sofferto rapporto con le istituzioni ecclesiastiche, la coscienza che quell’estetica camp, di cui la comunità LGBT ha oggi fatto la propria bandiera, deve il suo nome (come il rosa che il senso comune associa ai gay contemporanei) a quei campi di concentramento che li avrebbero voluti sterminati.

Ancora una volta, lo spettacolo a tematica colorato e rutilante si fa strumento di realtà, ed è in un intenso e spiazzante finale – la porzione più riuscita – che l’artista si toglie il cerone, e svela il suo vero volto: un uomo innamorato che vestendone i panni tiene vivo un amore perduto.

È più provocatorio lui o Divina? L’uomo o la maschera? Quale siamo disposti a considerare travestimento e quale realtà?

La risposta sta a ciascuno, chiamato a confrontarsi non solo con l’altro, ma anche a quanto è risposto a riconoscere di sé in un un essere “umano, visceralmente umano, carnalmente umano, profondamente umano”, che indossa contemporaneamente i tacchi, il bustino, un completo nero, un un crocefisso al collo e appuntato sulla giacca il fiocco rosso in memoria delle vittime dell’AIDS.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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