Donne che sognarono cavalli. L’odio è fatto della stessa sostanza del dubbio.

Un interno stretto, claustrofobico, che il testo vorrebbe ancor più soffocante, con il pubblico addossato alla scena. È qui che si svolge una riunione di famiglia: tre fratelli e le rispettive mogli si ritrovano intorno a un tavolo, a scontare e non scontarsi reciproci vissuti, miserie e silenzi. Questo è l’unico dato certo (ma forse, neppure questo lo è) di Donne che sognarono cavalli, in scena al teatro Elfo Puccini.

Forse l’unico reale dato certo è un altro. L’odio. In realtà, in quello che non appare mai, fin dall’inizio, come un felice quadro familiare, tutti odiano tutti, hanno paura gli uni degli altri. Hanno paura Reinar, Roger e Ivan, Uno, ex pugile, forse ha un cancro al cervello e non lo dice, l’altro ha venduto l’azienda di famiglia, il maggiore vede scivolare vede andar via la donna che considera la sua ragione di vita.

Hanno paura Ulrika, Bettina e Lucera. La prima, sedicente scrittrice di sceneggiature, vorrebbe un’altra vita. La seconda ha venticinque anni più del marito e ne dipende totalmente, la terza ne ha trentacinque di meno, forse è incinta e vorrebbe andarsene, e basta. Andarsene a cercare un passato che non ha, che riemerge lentamente, evocando la morte dei suoi genitori, desaparecidos, in cui forse i cognati hanno una qualche responsabilità.

Ma è una parola sola a segnare la traccia di questo spettacolo: forse. Nulla di ciò che avviene si è mai sicuri avvenga o sia avvenuto davvero, nessun dubbio viene mai definitivamente chiarito.

A contribuire alla complessità della narrazione, l’accostamento le cinque scene in un ordine composito, indubbiamente mai cronologico, che sta alla suggestione dello spettatore sciogliere secondo la propria personale interpretazione.

Il testo, firmato dal drammaturgo Daniel Veronese ha, del teatro argentino, la dimensione onirica, vitale e spietata. Si iscrive a pieno titolo, eppure in modo del tutto personale, nel realismo magico che caratterizza quel teatro. Il magico viene qui soverchiato dal realismo. La vicenda è infatti saldamente ancorata al verosimile, benché il suo dipanarsi si sostenga su una costante ambiguità e complessità che rende leggibile soltanto la violenza, fisica, morale, psicologica. Subdola e palese insieme, che diventa violentemente visibile superando la possibilità delle parole. È il gesto, infatti, l’atmosfera e il non espresso che si generano tra gli interpreti a dire ciò che avviene, in questo che potrebbe essere un pezzo di cronaca, una telenovela o un sogno.

Le parole hanno un senso ma non dicono niente, si susseguono a strappi e contorcimenti di senso, in un vortice di incomunicabilità, grida e rifiuto di ascoltare l’altro che è la più vistosa delle dimostrazioni di violenza.

Roberto Rustioni mette in scena una regia minimale, volutamente ridotta all’osso dal contesto che poco concede alla costruzione scenica, il cui vorticoso accadere dei non-eventi che portano avanti la pièce viene solo a tratti illuminato da efficaci freeze, ben disegnati dalle luci, dove Lucera prova a chiarire alcuni passaggi degli avvenimenti e a riannodarne le fila, finendo però con l’aggiungerne porzioni che non fanno che aprire ulteriori domande, che non si possono chiarire nemmeno con un finale che non ha nulla di definitivo.

Fuori da essi, le schermaglie di adulti che giocano e si scontrano come bambini, nell’attesa di una maturità che porterebbe chiarificazione e non giunge mai.
Dove sprazzi di frasi eleganti (affidate soprattutto all’Ivan di Paolo Faroni) si mischiano senza soluzione di continuità con la più semplice quotidianità, ricercata come misura dell’intera pièce.

Un testo complesso e affascinante, portatore di un orizzonte interessante e caratteristico e tutto da scoprire come il teatro argentino, ma che non per questo perde di originalità, al contrario, mantiene il proprio granitico peso specifico. Merito anche di un ottimo cast, ormai affiatatissimo e prodotto di un vistoso lavoro sul gruppo oltre che sui personaggi, in cui si segnalano, oltre al già citato Faroni – i cui fratelli sono l’ombroso Roger di Valentino Mannias e il violento Reinar di Fabrizio Lombardo – la emotiva Bettina impersonata da Maria Pilar Perez Aspa e la Lucera in crescendo di Michela Atzeni, a cui fa da contraltare il fragile libertinismo di Ulrika, Valeria Angelozzi.

L’incertezza costitutiva dell’intero spettacolo è nei cavalli, sogno e visione condivisa e incoerente la cui lettura simbolica è tutta a carico dello spettatore.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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