Festival dello Spettatore: una giornata di studio sulla democrazia della cultura.

immagine per Festival dello Spettatore

Di chi è il bene culturale?  Anni di lavoro nell’ambito della programmazione, preparazioni e studi che mischiano questioni relative a formazione e ricerca di momenti di incontro tra pubblico, operatori e artisti all’interno di apprendimenti reciproci, costituiscono il terreno su cui si è basata la giornata di studi dal titolo “La cultura è democratica?” promossa dal Festival dello Spettatore ad Arezzo.

La verbalizzazione di un materiale, vissuto e mutevole, fluidamente aperto si nutre delle riflessioni di tutti i partecipanti e vuole essere a sua volta una visione critica, se non altro per complicarne le certezze esibite. Alla tavola rotonda, gli interventi che catturano la mia attenzione sono tanti ma di qualcuno mi accorgo di essermelo portato in altri contesti, nella vita quotidiana e nel lavoro.

L’emergere di una terminologia relativa alla “cultura”, intesa come quella prodotta e offerta dalle istituzioni culturali più note, come cinema, teatri e biblioteche si mischia a quella delle cose tipiche che recintano le persone, immaginando per loro spazi geograficamente connotati dove persino gli stili di ricezione, fanno assurgere a rango di scienza esatta la chiacchiera da bar. Ciò che non tiene conto che la città è di carne (come più volte ribadisce Ilda Curti Presidente Associazione Iur di Torino), rischia di far fare a quegli enti culturali un’operazione pericolosa per la sua portata discriminatoria, che slitta costantemente verso lo stereotipo.

Un concetto di cultura unilaterale che lascia ben poco spazio al teatro ad esempio, costringendolo a percorrere strade programmate da chi si ritiene facilitatore di cultura. Questo modello di regista, maestro delle tecniche, esperto di intercultura, ma anche di geografia sociale e abile intuitore dei bisogni culturali, che prende le distanze dal progettista autoritario e trasmissivo, si rivela perfettamente coincidente con il vecchio modello che critica.

Questo è ciò che Cleophas Dioma, coordinatore del gruppo “Migrazione e Sviluppo” del Consiglio Nazionale per la cooperazione allo sviluppo del Ministero degli Affari Esteri, ci assicura parlando dell’esigenza di mettere in discussione la presunta abilità nel saper usare varie tecniche di mediazione, tramite le quali il facilitatore riuscirebbe ad alleggerire il “peso” del fare cultura. Il bene culturale non è frutto di un’azione unilaterale ma un incontro tra le persone che compongono il tuo territorio. Persone che hanno bisogno di fermarsi – dice – e di chiedersi semplicemente come stai. Punto e basta.

L’argomento trattato, più che di cultura democratica dovrebbe per Andrea Paolucci (regista del Teatro dell’Argine a Bologna), realizzare l’immaterialità delle relazioni tra simili.   Le città multiculturali, definibili così in ragione della diversità culturale, sociale, di accesso economico alle risorse produce significati diversi per parole come pubblico, arte e cultura e si coniuga in modo proficuo all’osservazione sul campo, dove l’osservatore e l’osservato mutano reciprocamente il loro sguardo, secondo ottiche pluriprospettiche.

L’esperienza di questi anni ci ha portato a riflettere a lungo sui tanti approcci rassicuranti che vengono intrapresi da enti e istituzioni – dice ancora Paolucci -, ma poi noi in realtà, ciò che facciamo davvero è una sorta di “guerriglia urbana a bassa intensità”. Tradurre un depliant oppure trasformare il teatro alla bisogna in un semplice bar da frequentare sono semplici atti dovuti, allo scopo di facilitare ad un cittadino l’accesso ad un servizio. Niente più di questo.

Pertanto, accogliere l’opposizione io/l’altro, noi/loro significa assegnare una sostanza stabile all’identità, costantemente orientata a controllare le possibili alterazioni prodotte dall’altro. Anche gli organizzatori del festival – e in particolare Laura Caruso che ho intervistato in un parco, circondate da una dozzina di ragazzi dell’alternanza scuola-lavoro che la seguono ovunque, mi dice che il senso del Festival sta nella volontà di creare spazio all’immaginazione e nel produrre implicazioni che vanno nella direzione dell’accogliere e immaginare la città.

Lo scopo penso, è quello di muoversi all’interno delle pratiche di assoggettamento per mettere in discussione l’opposizione spettatore attivo/spettatore passivo. Discorso peraltro, sottolineato poi da Oliviero Ponte di Pino, il quale intervistando Chiara Bersani mi ha fatto riflettere sul come anche in nome del “rispetto delle differenze”, ci si possa abbandonare ancora a pratiche di esclusione sociale. Rimarcare una differenza a volte significa individuare una separazione netta.

Una divisione del mondo in noi e gli altri, vincolata a scelte politiche di inferiorizzazione nei confronti di chi è visto come altro è inoltre ciò contro cui ha lavorato Luisa Bosi (di Murmuris progetto “Casa Teatro” di Firenze con il suo progetto realizzato insieme con Unicoop e non semplicemente finanziato), le esperienze al Teatro Florida hanno lo scopo di scongiurare il pericolo di creare nuovi critici o influencer.

Con lei e la sua storia di attrice e progettista, abbiamo visto come operare un distacco netto dal modello noi/loro non significa rifiutare la diversità, ma ricondurre la relazione su un piano di somiglianza e di reciprocità. In generale, tutti concordano nel dire che non è soltanto la negoziazione dei significati a favorire le relazioni, ma è soprattutto la dinamica che comporta una vera condivisione.

La progettazione di risposta a bandi ha rappresentato e rappresenta, infatti, uno spazio di pratica ambigua, in cui poco ci si interroga sul pericolo che le retoriche dei discorsi sulle differenze culturali si trasformino, come afferma ancora Cleophas Dioma, in politiche di integrazione forzata e in pratiche marginalizzanti.

Diventa sempre più necessario pensare ai nomi e cognomi del pubblico come luogo in cui l’operazione culturale può diventare co-costruttore di significati condivisi e contrapporre all’immaginario socialmente e politicamente costruito la concretezza dello “stare insieme”. Si tratta non solo di possedere competenze su come si propone cultura; ma più in generale di sperimentare che la cultura diventa democratica quando permette di riflettere sul fatto che, scoprire che le culture sono plurali non è un esercizio inoffensivo.

L’attenzione che poniamo alle nozioni di democrazia e di cultura ci permette di rivedere i termini della figura del promotore artistico come protagonista indiscusso di un processo inteso come trasmissione di conoscenza.

Paolucci parla di trasformare il teatro in un presidio volto a costruire non nuovo pubblico da fare abbonare alle stagioni ma persone in grado di condividere “situazioni”, approfittando delle interrelazioni e approfondendo quello spazio intermedio in cui situazioni distinte possono sovrapporsi.

Non si tratta, quindi, di tracciare contorni netti e definiti, quanto di puntualizzare gli aspetti di distanza, di contiguità e di intersezione tra le varie situazioni. Sembra di sentire di Paulo Freire nelle parole che Simone Zacchini docente dell’Università di Siena, usa nel descrivere la dinamica del suo progetto di filosofia in carcere. Capisci immediatamente che parla di ascolto come pratica necessaria e costante, grazie alla quale si dubita delle proprie certezze e si impara a tramutare ciò che è autoritario in un dialogo. La rinuncia all’addestramento – penso – possiede una rilevanza etico-politica: l’insegnante non instilla contenuti, ma agisce con loro.

Tutto questo può essere definito cultura democratica perché non c’è più un pubblico indistinto ma uomini e donne da avvicinare, a cui offrire le occasioni per ritornare a vedere quelle lucciole che ancora Ilda Curti alla fine, offrendo un barlume di speranza per il domani, prende in prestito dal libro di Didi Huberman. Se i momenti di democrazia sono sporadici come le lucciole di Pasolini, almeno cerchiamo di ricordare che c’è un momento in cui anche la barbarie subisce degli intoppi.

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Matilde Puleo è storica e critica d’arte, curatrice, organizzatrice di eventi culturali e docente. Ha collaborato con riviste di settore e scrive regolarmente di arti visive e cultura. Collaboratrice di alcune gallerie private e istituzioni museali, nel 2006 ha istituito un’associazione culturale (www.megamega.it) per la quale ha curato la direzione artistica promuovendo progetti d’arte in spazi pubblici. Dal 2008 al 2014 è Indipendent Curator con “Mushroom – germinazioni d’arte contemporanea”; “Marker- evidenziare artisti emergenti” (edizione 2009); “Contrasted-opposti itinerari” (2010) e PP-percorsi personali (2011), progetti sostenuti da TRART (Regione Toscana), per uno spazio espositivo del Comune di Arezzo, nel quale ha promosso l’attività formativo-espositiva dei giovani artisti del territorio. Ha scritto numerosi testi per libri e cataloghi ed ha collaborato con l’Università degli studi di Siena, per l’insegnamento di storia dell’arte contemporanea. Dal 2002 è giornalista per la rivista cartacea Espoarte e collaboratrice free-lance per alcune riviste on-line. Dal 2011 al 2014 ha organizzato progetti speciali (patrocinati dalla Regione Toscana), finalizzati alla realizzazione di workshop, mostre ed eventi dal vivo, performance e ricerca video. E' stata ed è divulgatrice anche attraverso seminari, workshop e conversazioni. Attualmente cerca di mantenere un orizzonte ampio di scrittrice, studiosa e autrice di progetti nei quali intrecciare filosofia, illustrazione, danza, teatro e formazione. La tendenza è quella di portare avanti l’approfondimento e l’articolazione del pensiero come fari con i quali sviluppare la necessaria capacità d’osservazione e di lettura del mondo.

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