Lea Vergine e quello sguardo incapace d’esser faccenda di persone perbene

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Lea Vergine

Legittima emendatrice delle letture sessiste nella storia dell’arte, Lea Vergine ci lascia a 82 anni e nel silenzio della morte ci consegna limpidissima la qualità delle scelte teoriche ancora da sviscerare sul piano della riflessione critica tout court e sulla creazione estetica in quanto tale.

Discorsi sullo statuto e sullo specifico femminile, riflessioni sull’esperienza soggettiva come costruzione sociale sottoposta a variazioni culturali, o preziose considerazioni sulla differenza di genere che sono – purtroppo – questioni ancora aperte, se non addirittura cocenti.

Le confusioni e i salti concettuali sono all’ordine del giorno e gli errori determinati dalla celebrità raggiunta da alcune o dall’immeditata stigmatizzazione del negativo non considerano la complessità del reale.

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Lea Vergine

La faccenda continua ad essere scabrosa, ma c’è un punto fermo. Ciò che ci ha insegnato con coraggio e determinazione questa protagonista della critica d’arte è che l’arte femminista non esiste, così come non esiste una storia separata dell’arte al femminile.

Ciò non significa però disconoscere il fatto che tutte le volte che l’arte si occupa di temi femminili sia capace di toccare o sfiorare specifici argomenti, come corpo, maternità, affetti, sostanze, cibo, orifizi, manipolazioni o dipendenza affettiva e che ciò – oltre a renderla immediatamente colorata e densa –, la trasforma nell’espressione di una progressiva, inarrestabile rivelazione. Rivelazione che – ci assicura – è intollerabile e indecorosa, per le persone perbene.

«Qui non v’è posto per stucchevoli madrigali o per leziose semplicemente di collegio; qui è palese una forza squassante, ragione di schianti e di esaltazione. Il che sta a significare il vigore di una posizione rivoluzionaria e non rivoltosa che ha innovato con pienezza e autocoscienza»[1].

Scriveva così nel 1980 poco prima che l’oggetto di studio che l’aveva impegnata per tredici mesi sarebbe diventata la mostra delle mostre.  L’altra metà dell’avanguardia, titolo quanto mai sofferto, le stava raccontando che la storia del femminile era stata, e continuava ad essere, una vicenda multipla, complessa, stratificata, che intravedeva nelle forme del dialogo e della narrazione la possibilità di porsi in relazione, di esplorare nuovi territori e nuovi mondi. Reali, concreti, simbolici o metaforici poco importava.

Nessuna collegiale dunque e nemmeno madrigali sul suo tavolo di lavoro, ma mille sigarette e telefonate per ricucire storie che oggi diventano (tutte insieme) il ritratto a parole che Lea fa di sé stessa. Parole che si associano perfettamente all’idea e all’immagine che tutte noi abbiamo di lei – orfane, prima e dopo, noi che nel ’68 eravamo appena nate.

L’occhio senza tempo: “come un infiltrato, come un femminista onorario, come una ladra onesta”.

«Non mi sono sentita critico, ma una persona che scriveva di cose che non erano manifestatamente, ma che potevano essere»

Le cose che potevano essere erano dunque le esperienze fortemente multidisciplinari, che fanno incontrare e scambiare saperi a tutte quelle persone che riconoscono l’arte oltre lo steccato delle “discipline”. Le cose che potevano essere erano quindi i ritratti di quelle artiste attive tra il 1910 e il 1940 che le raccontavano gallerie poco definite di donne piene di vita e dunque sempre inquiete.

Donne che le suggerivano di evidenziare non tanto l’appartenenza ad uno o più movimenti d’avanguardia, quanto invece il carattere irriducibilmente rizomatico, carsico, non lineare, di ogni percorso di libertà e di emancipazione. La creatività femminile indagata per quella mostra si avvalse del fare dell’investigatore, attento ai dettagli d’identità che (qualsiasi fosse il genere) sembrava costruirsi nel tempo.

Lea Vergine intanto imparava che ci si può ergere su sedimentazioni di eredità di vario tipo e che si può fare leva proprio sulla ricchezza di tutte le esperienze di vita disponibili. In questo modo la storia delle artiste le insegnava a perdere il contatto col tempo lineare e progressivo e a cominciare a far propria la forma mentale di un cantiere aperto, mobile e modificabile, sempre pronto all’acquisizione di dati e conoscenze.

L’identità – ci insegnò più tardi nel suo bel libro L’arte non è faccenda di persone perbene (Rizzoli 2016) – è una storia in cammino che le ha chiesto di pagare professionalmente le critiche ipocrite e sessiste rivolte contro il suo interesse per Lucio Fontana e poi per la Body Art. Tuttavia, per Lea Vergine l’arte era e rimaneva una scuola di rigore.

Conoscitrice delle strutture profonde del desiderio

Mentre nel mondo dell’arte la portata di esperimenti e di scoperte condotte nei Settanta vanifica ogni zelante tentativo di inquadrarle, per Lea Vergine quegli anni sono stati occasioni per conoscere performer che erano al tempo stesso, manifestanti, poetesse, sobillatrici e fotografe.

Naturale quindi che pubblicasse Body Arte e storie simili – Il corpo come linguaggio chiedendo contributi agli artisti stessi e parlandoci degli stereotipi sessisti nella cultura di massa, e finisse per invitarci a guardare gli altri modi per registrare desideri e lacerazioni. In quel 1974 data di pubblicazione, il corpo diventa “linguaggio” e Lea comincia a collegare l’arte ad una malattia del sé. Parlandone con gli artisti, scrive che la body art è:

«rimettersi al mondo, una seconda nascita, scelta e presentata attraverso il corpo».

Leggendo e mettendo a punto il denso apparato di fotografie, di fotogrammi di film, videotape, happening, azioni e performance, che confluiscono nel libro, Lea sceglie di parlare delle strutture profonde del dramma personale: dunque d’amore, di abbandono e di morte.

Negli anni dell’esplosione della body art, i suoi occhi vedono nascere le performance più crudeli e violente per la necessità – a suo avviso – di «raccontare l’amore per l’altro non corrisposto», creando connessioni col passato e rintracciando affinità con l’uso del corpo che ne fece Pollock negli anni Quaranta.

La vocazione della militante ha caratterizzato il suo percorso e pur restando fedele all’idea di una struttura comune nell’esercizio della creatività, è stata capace di innovare nei suoi scritti e di essere significativa in ogni suo intervento. Mai ordinaria nelle interviste, nelle sue rubriche per la RAI o negli articoli, Lea Vergine ha fatto scelte indipendenti, sempre attenta alle problematiche del tempo, privilegiando uomini e donne che condividevano con lei la passione civile per il reale, quella per le ombre e il rischio.

Il manuale dell’esercizio al vedere

Nel mondo dell’arte, Body Art provoca un caso a sé. Oltre al tema è la struttura del libro a destare interesse e suscitare discorsi. Sono gli stessi anni dell’Autoritratto di Carla Lonzi e del sociale come metro di tutte le discipline. Ci si interroga collettivamente e la critica si avvicina ai linguaggi poetici con delicata circospezione, in un’atmosfera carica di impegni e progetti per il futuro. Le sue scelte utilizzano come materiali di riflessione sé stessa e quindi anche tensioni e questioni vissute personalmente. Non si separa il pubblico dal privato perché il privato è politico.

Aggiunge:

«Scrivendo  ho sempre cercato di privilegiare il lettore che nei riguardi dell’arte ha nutrito diffidenza, perplessità, curiosità e speranza. Non ho mai praticato la scrittura come resoconto elettorale ma neanche come colonna sonora liturgica».[2]

Quando poi pochi anni dopo L’altra metà dell’avanguardia tenutasi a Milano a Palazzo Reale sollevò il velo (basti ricordare solo il caso Carol Rama), la mostra diventa un manuale. Ogni aspetto è nuovo e Lea ha ridicoli precedenti. Catalogo e mostra quindi erano privi di precedenti bibliografici e Lea deve inventare tutto.

Ne risultò una mostra itinerante capace di trasgredire la barriera del silenzio, evidenziando i fondamentali del suo percorso di teorica: il primo era che la mostra deve essere concepita come indagine sull’opera e occasione di raccordo, specie nelle lunghe carriere e il secondo era che la scrittura deve essere continua indagine sulla parola. Non per creare spiegazioni o descrizioni che vorrebbero rendere lineare il dire, ma per aprire il senso.

La scrittura è l’occasione fornita alla parola per abbandonare il piano del significato e seguire i significanti, la catena associativa e quel di più, quel resto di inspiegabile col quale la scrittura s’accorgerà dei suoi limiti. L’esercizio del vedere quindi, consiste nel mettere in discussione le credenze, nel farsi le domande e nel non limitarsi a descrivere gli eventi ma di crearli. Imparare a guardare significa riuscire a volgere ogni affermazione in domanda e scoprire che nessuna risposta potrà mai essere esaustiva, perché – diceva – «la rimozione è sempre in atto».

Il Sessantotto

Nella biografia di Lea Vergine questo è un anno emblematico. Prese parte con innocenza a tutte le occupazioni possibili e immaginabili: quella alla Triennale, quella alla Biennale, a Documenta e a Kassel perché – dice:

«Credevo che sarebbe incominciato un modo di vivere diverso più allargato, non so».[3]

Questo modo diverso veniva fuori in maniera cristallina ad ogni sua uscita: le sue posizioni politiche emergevano chiaramente nei suoi contributi ai convegni o nei libri pubblicati dopo la sbornia sessantottina, quando condannava la condotta blanda dell’ala progressista della critica d’arte che ora si riconosceva nell’ufficialità e nell’ortodossia.

Scriveva nel saggio del ’76 dal titolo Attraverso l’arte pratica politica–pagare il ’68 (Arcana editore):

«Di terrorismo estetico neanche a parlarne».

Bisognava parlare della responsabilità e della coerenza di artisti e critici per farne il punto fondamentale di un lavoro artistico strutturalmente politico.

Il sistema dell’arte era stato inglobato nel modo di vivere tipico del consumismo, l’opera d’arte si era trasformata in oggetto da possedere. Prolifera e arricchisce il circuito delle gallerie d’arte internazionali.

A seguito di questo momento sentito come un’invasione del superfluo, nell’agosto del 1968 viene pubblicata una dichiarazione firmata da Enzo Mari e Enrico Castellani dal titolo “Un rifiuto possibile”, nella quale i creativi motivano il loro rifiuto a partecipare alle rassegne collettive di arte contemporanea (dalla Biennale di Venezia a Documenta, da Alternative Attuali alla Triennale di Milano) accettando la partecipazione a mostre individuali, in quanto esposizioni che comportano una piena assunzione di responsabilità da parte dell’artista, che può rendere pubblici i compromessi necessari alla realizzazione e fruizione delle opere.

Nel frattempo divorzio e aborto, diventavano conquiste. Il resto può rimanere alogico e l’arte si potrà permettere di non soddisfare alcun tipo di funzione informativa. Anzi, in quanto teatro dei sensi l’arte, meglio della comunicazione educata, saprà creare vero scambio tra uomo e donna.

I risvolti politici di questo futuro sono impliciti: il rifiuto a considerarsi merce e la necessità di vedere più spesso e di mettere al mondo «donne di eccentricità, disobbedienza, generosità e perfino di tragica grazia»[4]. Esattamente come era Lea.

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Note

1.  L’altra metà dell’avanguardia 1910-1940. Pittrici e scultrici nei movimenti delle avanguardie storiche, Mazzotta ed, 1980.

2.  L’arte non è faccenda di persone perbene, Rizzoli ed, 2016

3.   Irritarte. Appunti per una analisi delle comunicazioni irritanti, Milano, 1969

4.   L’ altra metà dell’avanguardia 1910-1940. Pittrici e scultrici nei movimenti delle avanguardie storiche, Mazzotta ed, 1980.

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Matilde Puleo è storica e critica d’arte, curatrice, organizzatrice di eventi culturali e docente. Ha collaborato con riviste di settore e scrive regolarmente di arti visive e cultura. Collaboratrice di alcune gallerie private e istituzioni museali, nel 2006 ha istituito un’associazione culturale (www.megamega.it) per la quale ha curato la direzione artistica promuovendo progetti d’arte in spazi pubblici. Dal 2008 al 2014 è Indipendent Curator con “Mushroom – germinazioni d’arte contemporanea”; “Marker- evidenziare artisti emergenti” (edizione 2009); “Contrasted-opposti itinerari” (2010) e PP-percorsi personali (2011), progetti sostenuti da TRART (Regione Toscana), per uno spazio espositivo del Comune di Arezzo, nel quale ha promosso l’attività formativo-espositiva dei giovani artisti del territorio. Ha scritto numerosi testi per libri e cataloghi ed ha collaborato con l’Università degli studi di Siena, per l’insegnamento di storia dell’arte contemporanea. Dal 2002 è giornalista per la rivista cartacea Espoarte e collaboratrice free-lance per alcune riviste on-line. Dal 2011 al 2014 ha organizzato progetti speciali (patrocinati dalla Regione Toscana), finalizzati alla realizzazione di workshop, mostre ed eventi dal vivo, performance e ricerca video. E' stata ed è divulgatrice anche attraverso seminari, workshop e conversazioni. Attualmente cerca di mantenere un orizzonte ampio di scrittrice, studiosa e autrice di progetti nei quali intrecciare filosofia, illustrazione, danza, teatro e formazione. La tendenza è quella di portare avanti l’approfondimento e l’articolazione del pensiero come fari con i quali sviluppare la necessaria capacità d’osservazione e di lettura del mondo.

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