Celeste – appunti per Natura #1. Esplorare il senso della danza con Raffaella Giordano. E poi evocare una natura del tutto umana.

immagine per Raffaella Giordano

In uno spettacolo di danza, la visione è la domanda mentre il movimento è la risposta. Impariamo da piccoli che quando il corpo si muove rivela chi siamo, espone agli altri l’immagine che abbiamo di noi stessi, mentre questa stessa immagine, sfuggendo dai nostri occhi, sfuggendo, per così dire, dalle nostre mani, subisce una metamorfosi e diventa patrimonio degli altri.

Davanti ad uno spettacolo di danza, la domanda posta ad un corpo in movimento intenzionale – corpo che si mette in scena – è complessa dal punto di vista della comprensione dei significati, ma anche umanamente naturale.

La risposta di questo assolo di Raffaella Giordano dal titolo Celeste – appunti per Natura è composto da dodici movimenti di un alfabeto del tutto personale sui quali la danzatrice ha lavorato trattandoli come semi e poi radici dai quali far sorgere i gesti che strutturano lo spettacolo. In questo Celeste a danzare è quella natura che rifiuta la logica della distinzione.

La natura del sottotitolo (a questo punto integralmente biologica, sociale, storica), mette in scena i suoi ritmi e i riti del camminare e contemplare l’alternarsi delle stagioni o lo scorrere del tempo definiti da luci calde e fredde e da bagliori di note musicali minimali, ma non è solo questo.

Non si tratta di una descrizione puntuale di qualcosa difficile da definire ma di un continuo riferimento simbolico fatto di parole registrate che fluiscono troppo basse impedendoci di riconoscere senso e significati. Nella colonna sonora, le note di un pianoforte che suona poche note di una melodia semplice, si relazionano con questo paesaggio naturale solo per astrazione. I suoni figurativi registrano i fenomeni naturali, dal canto del gallo al verso delle cicale ma in tutto si tratta di frazioni di secondi.

La natura verde, quella delle montagne tanto per intendersi, è meno visibile di quella microscopica del vivente ed entrambe sembrano indifferenti a ciò che succede intorno.

Un movimento danzato dunque che a fronte della domanda posta dalla visione di cui sopra, offre un vocabolario di segni sullo spazio che sono a ben guardare la narrazione di un’intimità. Racconto del punto più radicato e raccolto del movimento e dunque il risultato più naturale per una danzatrice. Punto che umanamente parlando è quello a lei più accessibile e onesto.

Ne risulta la cronaca della fuoriuscita di una dimensione interna, delicata, femminea e sottile verso l’esterno e successivo ritorno a sé stessa. Il racconto di uno spazio naturale, che lungi dall’essere ridotto al solo dato dell’estensione, viene presentato come luogo del dispiegarsi del movimento.

Eppure il gesto danzato è teso a rendere il lento schiudersi vegetale oppure il lieve battito d’ali che freme e lascia che la sua vibrazione si disperda nel tempo. Il gesto evoca i movimenti lenti e guardinghi di un animale nella foresta, le ali di una farfalla e il decomporsi di una carcassa che subito diventano vere e proprie astrazioni. La danza della leggerezza si fa supporto sul quale dipingere il carattere ciclico di questa fauna che poi è il cicaleccio di suoni e il colore di una flora interamente catturata dall’abito di scena.

La natura a cui fa riferimento il titolo allora è piuttosto quella morbida e poi invasiva e infine diffidente di due mani sempre in dialogo fra loro. La natura umana delle mani della danzatrice che arrivano a tessere milioni di fili che si avviluppano al suo corpo imponendole di intrecciare una preghiera silenziosa fino alla fine dello spettacolo. Quando arriviamo alla fase conclusiva, la risposta arriva in tutta la sua chiarezza d’intenti.

Dritta e presente la danzatrice si porge al pubblico con un corpo disegnato dal contorno netto delle luci che finalmente si concentrano su quel viso fin qui tenuto nascosto. Un volto al quale è stato negato il processo d’identificazione e la cui individuazione è tenuta in sottrazione, oscurata dalle mani e resa invisibile da un accenno di maschera, costituita da un foglio con tre minuscoli buchi.

Il nascondere serve allora ad assecondare la necessità dello scrittore inglese J. A Baker di non interferire. Il libro L’Estate della Collina, fonte d’ispirazione dello spettacolo, è infatti frutto di un’osservazione della natura durata molti anni nella quale Baker decide di descrivere lasciando parlare direttamente alberi e animali. Conosciuto per una prosa dallo stile estremamente terso, il libro permette di costruire un punto d’osservazione non invasivo e lontano dalla natura che Raffaella Giordano intende perseguire, distanziandosi. Tuttavia, rimanendo un passo indietro per l’intera durata dello spettacolo, il corpo in scena è sempre presente a sé stesso.

La danza sa che l’eventualità o la contingenza sono la ragion d’essere del gesto e che la richiesta continua dell’esistenza pretende la ripresa; il recupero di una situazione di fatto. Vedi allora una danzatrice trasformare il suo orizzonte, appropriandosi un’altra volta del tremulo sfarfallio, donando suono a ciò ch’era muto o elargendo all’esistenza dei fenomeni naturali il volto dell’indeterminatezza.

Del resto, rispondendo ancora alla domanda del visivo, il movimento della danzatrice mi conferma che anche nel mio quotidiano vivere, io mi conosco solo nell’ambiguità della contemporanea appartenenza di corpo e mondo. Che anche il mio corpo è immerso (per non dire interamente sommerso) nello spettacolo del mondo, e che anche il nostro corpo è naturalmente espressione dello spettacolo del mondo.

Che il corpo non è semplicemente l’oggetto che subisce l’alterazione come reazione allo spettacolo, ma protagonista attivo della costituzione del mondo. Mezzo tramite il quale la coscienza modifica il mondo.

Ora che finalmente l’occhio del corpo di Raffaella Giordano ha scoperto i paesaggi in cui si è posato l’occhio di Baker a noi arriva la risposta. In essa si disvelano i significati che traboccano dal contorno corporeo, dallo spazio scenico scarno e dalla sagoma di una finestra rettangolare disegnata laggiù sullo sfondo. Il senso sorge, nasce, si leva nel corpo e si stende a illuminare il mondo con il fascio di luce finale concentrato sul suo volto permettendoci finalmente di riconoscerla.

La vediamo infatti in quell’immagine limpida e chiara che presenta lei e nient’altro.  Una danzatrice che ci accompagna in un viaggio diretti verso un mondo naturale che è solo nella nostra testa. Che anzi, non può che essere multiforme e complesso come lo è la parola Natura.

La natura del titolo allora deve essere altro, mi dico. È il suo corpo, ipotizzo. È il rapporto con sé stessa e con la storia che Raffaella Giordano rappresenta per la danza italiana. Sta in quella serie di gesti che empatizzando, noi percepiamo come esprimenti i suoi stati mentali esattamente come facciamo quotidianamente con le espressioni facciali del vicino di casa.

Espressione del volto che pur essendo interna e scissa dal resto del mondo dell’esperienza, i filosofi ci dicono essere presentificato. L’espressione s’incarna cioè in un soggetto che vive nel mondo e che si esprime utilizzando il suo stesso corpo e le relazioni con l’ambiente come veicolo di significati. La percezione che abbiamo del nostro e del corpo della danzatrice ci serve a comprendere a fondo le emozioni e i pensieri che popolano le nostre menti, e, con esse, anche il fenomeno empatico.

Il nostro corpo abita lo spazio e il tempo.  Ciò equivale a dire che non siamo imbrigliati e prigionieri del luogo (e del momento) che occupiamo, ma che attraverso i fili intenzionali suggeriti dalla danza siamo connessi a tutti gli altri possibili paesaggi e orizzonti che ci circondano o che non sono – ancora – attualmente qui. Si apre davanti attorno, dentro, dietro al nostro corpo la dimensione del possibile.

Ciò che rimane in mente dunque e che chiude lo spettacolo è proprio la rivelazione di un viso che era stato continuamente nascosto da due mani che sono fino alla fine dello spettacolo in continua lotta interiore. Una lotta che ci permette di percepire quel corpo come una “forma” profondamente concentrata sui suoi compiti. Ciò che mi fa riflettere è che anche il mio corpo mi appare come proteso o in procinto di svolgere un certo compito attuale o possibile.

Se ciò è vero, i gesti-base studiati per Celeste ci dicono che la spazialità del corpo non è come quella degli oggetti esterni: una semplice spazialità di posizione. Per il corpo dobbiamo forse parlare di un altro genere di spazio. Una spazialità di situazione, di intenzione e di ascolto delle tensioni. Non a caso, questo è uno spettacolo fatto di mani che si chiedono e poi oppongono resistenza alla cosa alla quale hanno aderito e mani che quando finisce lo spettacolo lasciano che il viso mostri tutto quello che c’è. Sinceramente.

Quello della danza è dunque movimento della coscienza in uno spazio che è per una danzatrice spazio percorso o percorribile. I suoi movimenti, che dall’interno lei vive come azioni, sono per noi osservatori, una sorta di reazione motrice.

Ciò che la natura di questo spettacolo ci dice è che il corpo non va più concepito come mero aggregato di parti, ma come unità melodica di schemi e funzioni: ogni nota chiama a sé la precedente e attende fiduciosa la successiva. È per questo che mi piace pensare che la danza sia disciplina generosa e dissipatrice che ci mette a disposizione migliaia di schemi d’azione differenti. La nostra esperienza invece fa sì che di tutti i possibili schemi motori alcuni vengano prediletti ed utilizzati maggiormente e altri mai sperimentati.

Se invece cercassimo anche noi di ampliare gli schemi motori potremmo chissà, sperimentare l’apertura di nuovi orizzonti espressivi. Lo scopo sarebbe naturalmente quello di sempre: fornirci un disegno globale del corpo, o meglio una presa di coscienza della nostra postura nel mondo, e riconoscerla non solo come dinamica ma anche instabile, sviluppabile, amplificabile e soprattutto viva.

Celeste appunti per natura, ultima creazione di Raffaella Giordano.
Incipit e musiche per pianoforte Arturo Annecchino / incontri straordinari, complicità e pensieri Danio Manfredini e Joelle Bouvier / editing e composizioni astratte Lorenzo Brusci / luci Luigi Biondi / costume realizzato da Giovanna Buzzi, dipinto da Gianmaria Sposito / esecuzione tecnica Piermarco Lunghi, Alberto Malusardi / foto Andrea Macchia / un ringraziamento a Filippo Barraco, Sandra Zabeo, Romana Walther / primo studio aperto Complesso Santa Croce Prospettiva Nevskij, Bisceglie (BT) / prima nazionale Autunno Danza Cagliari 2017 / produzione Associazione Sosta Palmizi 2017 / con il sostegno di MiBAC, Ministero per i Beni e le Attività Culturali/Direzione generale per lo spettacolo dal vivo; Regione Toscana/Sistema Regionale dello Spettacolo

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Matilde Puleo è storica e critica d’arte, curatrice, organizzatrice di eventi culturali e docente. Ha collaborato con riviste di settore e scrive regolarmente di arti visive e cultura. Collaboratrice di alcune gallerie private e istituzioni museali, nel 2006 ha istituito un’associazione culturale (www.megamega.it) per la quale ha curato la direzione artistica promuovendo progetti d’arte in spazi pubblici. Dal 2008 al 2014 è Indipendent Curator con “Mushroom – germinazioni d’arte contemporanea”; “Marker- evidenziare artisti emergenti” (edizione 2009); “Contrasted-opposti itinerari” (2010) e PP-percorsi personali (2011), progetti sostenuti da TRART (Regione Toscana), per uno spazio espositivo del Comune di Arezzo, nel quale ha promosso l’attività formativo-espositiva dei giovani artisti del territorio. Ha scritto numerosi testi per libri e cataloghi ed ha collaborato con l’Università degli studi di Siena, per l’insegnamento di storia dell’arte contemporanea. Dal 2002 è giornalista per la rivista cartacea Espoarte e collaboratrice free-lance per alcune riviste on-line. Dal 2011 al 2014 ha organizzato progetti speciali (patrocinati dalla Regione Toscana), finalizzati alla realizzazione di workshop, mostre ed eventi dal vivo, performance e ricerca video. E' stata ed è divulgatrice anche attraverso seminari, workshop e conversazioni. Attualmente cerca di mantenere un orizzonte ampio di scrittrice, studiosa e autrice di progetti nei quali intrecciare filosofia, illustrazione, danza, teatro e formazione. La tendenza è quella di portare avanti l’approfondimento e l’articolazione del pensiero come fari con i quali sviluppare la necessaria capacità d’osservazione e di lettura del mondo.

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