La tragedia dell’uomo in quanto tale. Il Macbettu di Alessandro Serra.

immagine per Macbettu

«È un pugnale che vedo? Con l’impugnatura rivolta alla mia mano?»
Macbeth non sta facendo una vera domanda: il dado è tratto e lui uccide un re allo scopo di assumerne i poteri e compiere senza altri indugi, il volere del Fato profetizzato dalle Streghe.
Il Macbettu di Teatropersona andato in scena nell’ambito del Festival dello Spettatore, decide anzi, di annunciarti con un rumore di tuono infernale di avere fretta e che i vaticini avveratasi fin qui, da semplice barone senza figli a pupillo e futuro re, ora abbiano bisogno del suo più brutale ed efferato intervento per realizzarsi a pieno. Anche Lady Macbeth, donna a metà nel testo, è qui figura affascinante interpretata da un attore dalla lunga chioma, sottile, efebico eppure barbuto.

Oltre che dolorosamente sterile anche questa donna è assetata di posizioni e di ruoli e, come nell’originale vuole, pretende, invoca il regicidio, la distruzione della pace in Scozia e la sua stessa disperazione, perché qui non ci sono dubbi: dei due gli appartiene la spietata determinazione.

In questo spettacolo tutto al maschile dunque, Macbettu uccide un re che è anche uomo. Così come uomo è il rivale Banco che ora da fantasma – ma anche da corpo fisico – incombe nel suo seggio vuoto e a cena calpesta la tavola imbandita, camminando sul pane carasau diventato rovinosamente polvere.

Recitato in sardo, il testo del Macbettu è quello di Shakespeare trasformato in un linguaggio inaccessibile che a noi arriva come sacro, musicale e arcaico. Eppure non si ha bisogno di leggere la traduzione nei sopratitoli in italiano: si capisce e si sa (come in una cerimonia nota ma fatta in altra lingua), che non è stato solo ucciso un re, ma è stato negato a Macbettu la possibilità di dormire.

Ciò che non s’immagina è con quanta chiarezza sia possibile vedere la nostra parte malvagia in questo archetipo dell’inconscio che unisce la Scozia alla Sardegna, uomini del XVII secolo a noi ed entrambe le coppie a tutti gli altri mondi solo apparentemente lontani.

È così che questa storia trova spazio anche nel regno dei fantini che sono a cavalcioni di immaginarie silhouette equine, in quello dei funerali ad un ciocco di legno che pure è in grado di rappresentare la sete di vendetta dei morti ammazzati e in quello del gioco a nascondino dove Macbettu gioca a “toccamuru”.

Dal rito al teatro, lo spettacolo di Alessandro Serra è tragedia dominata dal male perché tutti i personaggi di questa storia già ambigui nell’originale acquistano ora il mistero e il fascino di avere otto attori in scena a interpretare tutti i ruoli in una rilettura della tragedia che invoca gli antichi riti dionisiaci, il carnevale sardo e l’arcaicità degli infausti crocicchi delle streghe.

Queste ultime tra l’altro, con giochi di parole, offese, sputi e cantilene mi evocano uno spettacolo che segnò e accompagnò la mia crescita in grado restare nella memoria come mosaico di emozioni che lasciano il segno. Penso all’irresistibile rosario strampalato (“e uno, dui, tre, quattre”) dello spettacolo di Roberto De Simone, La Gatta Cenerentola. Stessa alternanza di tragedia, commedia e farsa anche se questo Macbettu mostra di avere una propria evidente e personale simbologia scenica destinato credo, a diventare altrettanto memorabile e incisivo.

Personaggi barbuti, in giacca, camicia e panciotto, lo spettacolo non concede mai un colore. Anzi, è un bianco e nero polveroso e rumoroso, dove persino gli elementi scenici, le pietre prima cuscino poi piccolo nuraghe, la modesta seggiolina impagliata che fa da trono, i legni delle maschere per la scena della foresta, il plumbeo metallo dello sfondo o i segni lasciati a terra dai volteggiare dei lunghi costumi delle streghe, diventano misteriose e grigie tracce sul palcoscenico.

Indefinibili oggetti di culto che parlano di morte, uomo e destino o sospettose pareti metalliche che diventano improvvisamente le lunghe tavole imbandite dell’incubo di Macbettu; ogni oggetto di scena è stato selezionato e voluto da questo regista che possiede un’evidente preparazione artistica e fotografica. Travolgente nelle immagini e nell’interpretazione del testo – ( e basterà ricordare il richiamo del nome Macbettu come fanno i bambini quando si perdono o la voce autoritaria e mascolina di Lady Machbet quando dà da mangiare ai suoi bestiali ospiti).

Questo è spettacolo violento anche nell’intero panorama sonoro, specie laddove arriva come risultato dell’atto nefando e sordo dei calci sui corpi iperrealisticamente trasformati in maiali. Spettacolo perfino spaventoso in alcuni inquietanti quadri, come in quello dove il capovolgimento della scena è attuato dalle streghe gobbe e litigiose che confabulano e discutono con teste, bicchieri e desco sottosopra.

Ciò che arriva diritto alla pancia è senz’altro il risultato dell’autocontrollo: gli attori sono supermarionette amanti della disciplina e guerrieri addestrati all’attenzione per il particolare. Ognuno di loro ha il potere di prenderci per mano e invitarci ad attraversare tutte le fasi della ritualità. Da questa parte infatti, il pubblico si lascia trasportare in profondità scomode e quando è interamente catturato, incapace di astrazione siamo già alla scena finale. È qui che ormai totalmente conquistati, si resta ancora qualche minuto interdetti e in silenzio prima del lungo liberatorio applauso.

Bisognerebbe citarli tutti: attori, scenografi, macchinisti e chiunque abbia preso parte a questo spettacolo per intelligenza, attenzione e cura del lavoro. Vorresti conoscerli tutti e infatti davanti al teatro, incapaci di andarcene via, guardi e riguardi la figura del regista per il quale si prova un potente senso di ammirazione che nasce dalla sensazione di aver fatto parte di un’ipnosi collettiva.

Abbiamo assistito ad una scrittura teatrale politicamente ed esteticamente molto consapevole, e a nervi scoperti da questa grandezza, mi accorgo di una prospettiva per nulla scontata – quella fra i due poli del «teatro» e dello «spettacolo» – che ci ha regalato l’autenticità del gesto teatrale liberato dal dilemma più grande e cruciale in cui si dibatte l’arte della modernità: il conflitto insanabile fra il tentativo di realizzare una forma di pienezza nell’arte e la percezione della sua avvenuta e irrimediabile perdita.

Fuori e in piedi, avevamo bisogno di guardarci ancora e di ringraziare gli attori per averci fatto sperimentare la dimensione inedita della compassione per un uomo così diabolicamente simile.

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Matilde Puleo è storica e critica d’arte, curatrice, organizzatrice di eventi culturali e docente. Ha collaborato con riviste di settore e scrive regolarmente di arti visive e cultura. Collaboratrice di alcune gallerie private e istituzioni museali, nel 2006 ha istituito un’associazione culturale (www.megamega.it) per la quale ha curato la direzione artistica promuovendo progetti d’arte in spazi pubblici. Dal 2008 al 2014 è Indipendent Curator con “Mushroom – germinazioni d’arte contemporanea”; “Marker- evidenziare artisti emergenti” (edizione 2009); “Contrasted-opposti itinerari” (2010) e PP-percorsi personali (2011), progetti sostenuti da TRART (Regione Toscana), per uno spazio espositivo del Comune di Arezzo, nel quale ha promosso l’attività formativo-espositiva dei giovani artisti del territorio. Ha scritto numerosi testi per libri e cataloghi ed ha collaborato con l’Università degli studi di Siena, per l’insegnamento di storia dell’arte contemporanea. Dal 2002 è giornalista per la rivista cartacea Espoarte e collaboratrice free-lance per alcune riviste on-line. Dal 2011 al 2014 ha organizzato progetti speciali (patrocinati dalla Regione Toscana), finalizzati alla realizzazione di workshop, mostre ed eventi dal vivo, performance e ricerca video. E' stata ed è divulgatrice anche attraverso seminari, workshop e conversazioni. Attualmente cerca di mantenere un orizzonte ampio di scrittrice, studiosa e autrice di progetti nei quali intrecciare filosofia, illustrazione, danza, teatro e formazione. La tendenza è quella di portare avanti l’approfondimento e l’articolazione del pensiero come fari con i quali sviluppare la necessaria capacità d’osservazione e di lettura del mondo.

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