Se questo è un uomo. La voce di Levi-Malosti.

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La voce di Primo Levi è la voce che più di ogni altra ha saputo far parlare Auschwitz e tutti i diversi campi di sterminio nazista. È la voce che da oltre settant’anni, con Se questo è un uomo, racconta ai lettori di tutto il mondo la verità sulle atrocità compiute da quei criminali al potere, da quei soldati che “eseguivano semplicemente gli ordini” o da altri che realmente volevano essere –riprendendo un titolo dello storico statunitense Daniel Jonah Goldhagen– i “volenterosi carnefici di Hitler”.

È una voce di testimonianza pura che non lascia spazio ad alcuna ambiguità. Voce e parola. Parola precisa, puntuale, chirurgica, carica di rabbia e di fame, ma al tempo stesso mite e salda: «Meditate che questo è stato». Nel centenario della nascita di Levi, il direttore del Teatro Piemonte Europa, Valter Malosti porta direttamente in scena il romanzo “primogenito” dello scrittore torinese, firmandone la regia e l’interpretazione,.

Lo spettacolo, in prima nazionale al Teatro Carignano di Torino, è stato una creazione che ha preso vita grazie a Domenico Scarpa che ne ha curato la condensazione scenica; grazie a Margherita Palli che ne ha curato le scene e poi a Gup Alcaro che ha completato il tutto con un interessante progetto sonoro.

Se questo è un uomo è soprattutto un’opera acustica. Levi restituisce la “babele” del campo – i suoni, le minacce, gli ordini, i vocaboli gergali incomprensibili -orchestrandola sulle lingue parlate nel lager: i «barbarici latrati» dei tedeschi, lo yiddish degli ebrei orientali, l’italiano dei pochi connazionali ancora vivi.

Valter Malosti porta in scena il romanzo, ricercando quella nota esatta che è scrupolo di superealismo da cui si sentiva premuto Levi.

Il palco è buio, anzi, semibuio, perché una lampadina appesa a un filo invisibile, oltre a tagliare lo spazio con uno “squarcio” di luce, pare resistere, pare essere l’unica fonte d’energia immersa in un perimetro esasperante e di piena desolazione, quindi di buio. Levi-Malosti è un solo uomo, cappotto grigio, abito scuro, una valigia in mano con la quale avanza in uno spazio altrettanto grigio e che ha in sé qualcosa di fisicamente inquietante.

È Primo Levi che parla, con toni sempre lucidi e pacati, miti e fermi, senza odio o asprezze, ma sicuramente senza perdono. Senza perdono per coloro che lo misero in viaggio verso il nulla del campo di sterminio di Auschwitz, in quell’inferno senza ordine, in quella delirante attesa che accompagnava tutte le consumate ore dei prigionieri condannati a morte certa.

Levi la conosce bene quell’attesa e quindi la nomina in maniera chirurgica «Questo è l’inferno. Oggi, ai nostri giorni, l’inferno dev’essere così, una camera grande e vuota, e noi stanchi stare in piedi, e c’è un rubinetto che gocciola e l’acqua non si può bere, e noi aspettiamo qualcosa di certamente terribile e non succede niente e continua a non succedere niente. Come pensare? Non si può più pensare, è come essere già morti. Qualcuno si siede per terra. Il tempo passa goccia a goccia».

Un’ interpretazione attenta ma non sempre forte, e che in alcuni punti dell’unico atto, non ha saputo rendere al meglio la pluralità e la polifonia di Levi.

La voce di Malosti a tratti è risultata soporifera e piatta -anche se tenere in bocca Primo Levi per circa due ore, mantenendo sempre la stessa potenza, è praticamente impossibile e s’è vista l’impossibilità di farlo. Una testimonianza che vuole essere dura, forte e soprattutto efficace non deve mai cadere nel tranello della linearità e della costanza del ritmo.

I versi e le parole di Levi colpiscono in ogni istante, anzi, turbano sempre. L’obiettivo ultimo di Levi è quello di turbare l’animo dei lettori attraverso la testimonianza precisa. Non c’è né da commuoversi né da vagheggiare.

C’è solo da turbarsi, c’è da smuovere qualcosa nel nostro profondo affondando gli artigli sulle nostre quiete coscienze.  Levi è una mitragliatrice di versi in prosa, non un lungo peregrinar di parole, a volte, scaricate della loro grande potenza.

Nel complesso lo spettacolo è stato interessante, specialmente per quanto riguarda l’assetto scenico e l’aspetto sonoro «creati» – dice Malosti- «partendo dal teatro antico. Da qui l’idea dei cori tratti dall’opera poetica di Levi detti o cantati. Da qui ha preso le mosse l’idea di utilizzo dello spazio. Una sorta di installazione d’arte visiva più che una classica messa in scena teatrale. Insieme a Margherita Palli abbiamo immaginato un cortocircuito visivo tra la memoria del lager e le nostre tiepide case».

Molto suggestiva la “shemà” iniziale del libro, qui cantata in play-back e con una continua sovrapposizione di voci maschili e  femminili.

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Giuseppe Giordano nasce nel 1992 a Vercelli. Dopo aver compiuto gli studi tecnici, si è laureato in Lettere Moderne e Contemporanee - ambito di ricerca in letterature comparate euro/americane - presso l’Università degli Studi di Torino. Dal 2013 ha collaborato con alcuni settimanali locali e successivamente ha intrapreso il lavoro in un’azienda grafico-chimica. Nel 2017 ha pubblicato "E in un sogno d’amore scalcia disumano delirio", in "L’Iliade riscritta", a cura di C. Lombardi (Ed.), Torino, Mimesis (Collana Woland) e nel 2018 si è posizionato tra i finalisti al concorso letterario “Premio Internazionale Mario Luzi” con l’opera intitolata "Svezzamenti. Forme di un nichilismo liquido dal mancato e dalla dimenticanza"- ora in corso di pubblicazione presso la casa editrice Luzi Editore. Da qualche tempo ha iniziato a collaborare con la rivista “art a part of culture”.

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