Maria Lai e l’ansia d’infinito

Giocavo con grande serietà e ad a un certo punto i miei giochi li hanno chiamati arte.
– Maria Lai

Gli anglosassoni definiscono come late bloomer, chi sboccia con ritardo, come è successo a Maria Lai. C’è infatti chi, forse per una maggiore riflessività, per uno spirito contemplativo o sognatore, prima ancora di cercare di inserirsi nella realtà del mondo e della storia sente di farne parte con la propria partecipazione interiore sino a quando, senza forzare la mano, non si crea naturalmente una risposta al mondo e un dialogo.

Questi individui sono anche destinati a ricongiungere concezioni e idee appartenenti a diversi periodi storici e a spingerle avanti nel futuro. Maria Lai nella sua opera raccoglie le spinte dei movimenti d’avanguardia immediatamente precedenti, le fiabe e le leggende delle proprie origini, dense di archetipi eterni, nonché l’apertura alle esperienze dei suoi contemporanei, piegandole e dirottandole poi, verso una personalissima espressione che, nei suoi esiti finali a partire dal 1981, anticipa esperienze analoghe a quelle dell’Arte Relazionale enunciate da Nicolas Bourriaud solo nel 1998.

Al primo impatto con il suo lavoro nella mostra Tenendo per mano il sole – la più vasta dedicatale sino a oggi presso il Museo nazionale delle arti del XXI secolo, MAXXI, in occasione del centenario della nascita – viene da chiedersi se ci troviamo in presenza di un’artista o di una mistica, di una poetessa o di una santa.

Maria Lai è una grande eccezione, sfida le più comuni consuetudini artistiche – quelle dell’avanguardia storica e quelle a lei contemporanee – restando unica nelle modalità di rappresentazione ed espressione, lasciandosi guidare da un impulso primordiale destinato a svelarci che il mistero dell’arte è quello di saper ricongiungere le necessità più antiche con quelle del presente, di farsi luogo che riconosce come vitale l’apporto di ogni cosa creata.

I curatori Bartolomeo Pietromarchi e Luigia Lonardelli, sostenuti dalla collaborazione con l’Archivio Maria Lai e la Fondazione Stazione dell’Arte di Ulassai, hanno creato cinque sezioni – Essere è tessere. Cucire e ricucire/ L’arte è il gioco degli adulti. Giocare e Raccontare/ Oggetto paesaggio. Disseminare e condividere/ Il viaggiatore astrale. Immaginare l’altrove/ L’arte ci prende per mano. Incontrare e Partecipare.     

I titoli, allusivamente ampi, non sono puramente tematici, ma evocativi e provengono dalle stesse opere di Maria Lai, evitando la successione cronologica nell’intento di raggruppare il moltiplicarsi d’invenzioni, spesso concomitanti o di ripresa da tentativi precedenti che, dalla fiaba al gioco, dalle visioni di paesaggi, di geografie terrestri o astrali, dai rimandi alla tessitura, al cucire e al rammendare, giungono sino alle grandi opere partecipative dell’ultimo periodo, che prendono l’avvio da una collaborazione comunitaria collettiva, vivamente partecipata.

Dai video disseminati lungo il percorso, la voce calma, affermativa o cantante di Maria Lai, giunge con l’intimità di una confessione sussurrata che a ogni episodio aggiunge dettagli, riflessioni e concetti, sviscerati e maturati nel corso di lunghi anni, come filo conduttore di un racconto invisibile in cui tutto il lavoro dell’artista si distende e diviene. Maria Lai era convinta che l’opera potesse rivelarsi meglio in assenza del suo autore – tanto da aver pensato di far murare per cinquant’anni i suoi lavori dopo la sua morte e di farli estrarre solo alla scadenza – al contrario, qui ci rendiamo conto di quanto le sue creazioni disseminate, spoglie ed essenziali, costruite a partire da spunti reali in dialogo con le sue aspirazioni e visioni, abbiano invece – come il teatro – la necessità di una voce narrante a commento di ogni episodio della sua vita che aggiunge motivazioni, dubbi e pensieri con la straordinaria filosofia del suo stare al mondo e dentro la storia dell’arte, con il proprio accento e una propria inestinguibile ansia d’infinito. All’estremo bisogno di solitudine e silenzio fa riscontro, infatti, all’opposto, la necessità inesausta di pubblicarsi, donarsi e riversarsi altrove.

Quello di Maria Lai è un mondo inafferrabile, denso di non detto e d’indicibile che sembra provenire da un grandioso silenzio, e che, come premessa, richiede un atto di fede, più che di comprensione critica. E’, infatti, proprio a un cammino interiore che l’opera dell’artista vuole invitarci, come a un’iniziazione.

Maria Lai ha coltivato il silenzio di cui ripete di avere bisogno, dentro di sé, sin dall’infanzia quando, dai due agli otto anni, viene affidata agli zii, presso i quali sperimenta il massimo della libertà nei giochi e nelle fantasie.

Quegli anni incantati dovevano tramutarsi in una forma d’inadeguatezza ai tempi e alle richieste del mondo per farne insieme un essere riflessivo e malinconico e una creatura bizzarra, selvatica e ardita, dedita all’ascolto delle proprie voci interiori – come i bambini che sono destinati a diventare sciamani – refrattaria all’inserimento nella realtà del mondo, a meno di non piegarla al suo naturale fantasticare. Tra alterne vicende e momenti dolorosi – la morte degli zii e quella della sorellina – iniziando a frequentare scuole regolari, Maria avrà la fortuna d’incontrare, a mano a mano, maestri sensibili e attenti che cominceranno a interessarla allo studio: Salvatore Cambosu, scrittore e giornalista, cugino di Grazia Deledda, le aprirà le porte della poesia, lo scultore Francesco Ciusa le insegnerà a lavorare la creta e, per qualche tempo, anche il pittore futurista Gerardo Dottori, di passaggio a Cagliari, le darà lezioni. Lascerà sui vent’anni la Sardegna per iscriversi al Liceo Artistico di Roma, dove, a via Ripetta, seguirà i corsi di figura e modellato di Marino Mazzacurati, che la incoraggerà a iscriversi all’Accademia di Belle Arti di Venezia ai corsi di Arturo Martini, di cui, era stato assistente a Roma.

Dice Maria Lai:

Ero all’estero, doppiamente straniera. Anzitutto per essere sarda, poi per essere donna, unica donna a Venezia tra gli allievi di Arturo Martini. Ma essere donna a Venezia fu per tre anni la mia più grande scommessa

Altrove, nonostante tutto dovesse risultare abbastanza ostile alla sua diversità e inesperienza, dichiara di essersi sentita nientemeno a proprio agio, come trovando finalmente pace nelle diversità che siglano la vita di ogni artista, le uniche a cui, da questo momento, cominci ad avvertire di appartenere.

Dell’incontro con il genio perentorio di Martini serberà per tutta la vita l’insegnamento che la libererà anche dal dilemma del fare con la dichiarazione – concomitante proprio in quegli anni – della morte del linguaggio della scultura da cui, implicitamente, Martini attaccava tutta l’arte tradizionale, rispetto a quella d’avanguardia. Questo preparerà il deserto in cui, al suo ritorno nella terra d’origine, Maria Lai potrà finalmente calarsi, per abitarlo iniziando a tessere le sue fiabe e a percorrere gli sconfinati spazi tra cielo e terra, armata del più antico strumento femminile, il filo.

Appena uscita dall’Accademia di Venezia nel 1945, infatti, Maria sarà presa da un senso di disagio:

Non avevo più fiducia nella necessità dell’arte. Non sapevo che fare della mia vita. Per me si preparava una vita finalmente normale, dicevano, ma io ero infelice e mi sono ammalata.

Solo gli allievi mediocri s’ispirano alle fattezze dell’opera dei maestri, per gli altri, il loro insegnamento sta nelle parole e nei racconti che permeano d’intenzioni e di possibilità “ciò che deve essere ancora creato”.

Scorrendo le pagine di La scultura lingua morta di Martini, ovunque si può trovare traccia delle concezioni che dovevano influenzare Maria Lai.

La natura si occulta dietro una realtà apparente. Solo l’artista è ammesso nel recinto misterioso dove si sprigiona, per un’improvvisa fiducia, quel corto circuito di simpatia in virtù del quale la natura cede e si manifesta. L’opera nasce da questo abbandono.

L’arte non sopporta teorie, generi, stile. È un discorso spontaneomisterioso, ma fatale, come lo svolgersi della nascita nel grembo materno, una facoltà naturale eterna che stupisce per la semplicità di ripetersi nel tempo come il filo d’erba.

 L’arte non è interpretazione, ma trasformazione.

Martini volge al femminile il sostrato dell’arte scavando nel suo nucleo originario, e sarà proprio lui, infine, a farle riconsiderare la tradizione sarda con più interesse, citando “la dignità di un bronzetto nuragico”. Rientrata in Sardegna, Maria ritroverà il suo maestro Salvatore Cambosu di cui scrive:

“doveva diventare il mio più grande maestro e amico”.

Saranno gli scrittori e i poeti – più avanti anche Giuseppe Dessì  – che le insegneranno a nominare le cose del mondo, come fa il bambino che trasforma e non interpreta, che non vincola a modelli, ma sperimenta e crea incidenti e relazioni – esattamente come voleva Martini – a condurla sul crinale di gioco e poesia su cui, d’ora in poi, si muoverà.

La sua singolarità è misura di grandezza, ma ogni diversità prende il suo tempo, corre trasversalmente, può forzare il letto di un fiume deviandone il tragitto, invece di correre rapido lungo la pendenza maggiore. Per Maria, sino all’inizio degli anni ’60, la via non è ancora manifesta, ma fatta di un continuo forzare, schivare, superare i luoghi comuni, i pregiudizi e l’unilateralità di una storia concepita a una sola dimensione, tra mostre che, per quanto di una certa importanza, non la gratificano particolarmente, l’insegnamento prima a Cagliari poi a Roma, un periodo di malattia e la perdita del fratello Lorenzo. Il momento di rottura appare chiaramente quando, dopo aver deciso di non partecipare più a mostre, Maria inizia a sperimentare liberamente nuove tecniche e materiali e nel 1965, si risolve a trasferire di peso nel proprio lavoro – con l’aggiunta di pochissimi interventi – il “ready-made telaio”, lasciandone visibile in toto lineamenti e struttura. Maria lo guarda, lo dispone in vario modo, sta a osservarlo sino a quando la forma, che è misura della sua funzione, non comincerà a parlarle. Dentro c’è il vuoto dello spazio, che si apre attraverso le sue maglie in tensione, i suoi fili che vanno verso possibili cammini, ma ancorati a sostegni che ne assicurano il compito, un vasto intreccio, che di per sé, segnala il lavoro perfetto di spazio e tempo, prodigiosamente uniti insieme per definire immagini e forme che ne sono il prodotto. Un simbolo di cui Maria inizia a varcare la soglia. E’ lo stesso “occhio che ascolta” – così si esprime l’artista – la stessa capacità di attendere e di verificare quali energie le trasmette la materia, di quando nel ’92, con la Strada del Rito che congiunge Ulassai a Santa Barbara, si metterà ad “ascoltare” la parete e il muro sotto gli occhi attoniti degli operai, o ancora, di quando nel ’93, con la grande installazione, La Scarpata, costruita per bonificare una discarica, si convincerà della necessità d’interpretare il “volere” espresso dallo sprigionarsi del vento della montagna che ha scompigliato il suo disegno, fissando nuovamente i pezzi, là dove la tempesta li aveva gettati.

Un poco alla volta, lungo l’arco di un quindicennio, prendono forma gli oggetti paesaggio (’67), i paesaggi (’74), le tele cucite (’75), i primi libri cuciti, le geografie e le mappe celesti, a Selargius il primo intervento ambientale, una Casa Cucita, trapassando più volte l’intonaco di una parete esterna con ago e filo (‘78); i diari (’80).

I segni senza lettere sulle pagine dei libri di Maria Lai, da cui fuoriescono mille fili informi che non vi hanno trovato posto e che straripano all’esterno nella furia del caso, fanno pensare a lacrime e a umor malinconico rovesciati da storie, vissute con passione che non possono essere dette a parole, ma di cui – cucita nella pelle – resta indelebile la traccia, presa tra un’origine ignota e un traguardo sconosciuto, senza fine. Nel lasciare che il filo non scriva parole – significato – ma rimanga segno – ossia valenza semantica – Maria Lai sembra intuire la minaccia insita nella macchina simbolica del linguaggio, destinata ad allontanare invece che ad avvicinare gli uomini che è meglio seguano le vie indeterminate del suono, del tatto, del gesto e dell’immagine, per intendersi. Per questo, Maria nasconde e occulta la parola nei suoi diari senza fine, lasciando che le peripezie di uno sgorgare ininterrotto di tracce dilati il potenziale del seme-segno, senza confinarlo nei codici di un significato che ne mortificherebbero il senso. In questo modo dona all’uomo la possibilità di trasformare il segno-gesto in uno strumento di avvicinamento, pronto a ogni modificazione, dove la segretezza lo ri-assicura alla condizione da cui dovranno poi germogliare la vita, il mistero e la magia intrinseci nella sua realtà animica e metamorfica. Lo straordinario insegnamento del suo maestro Cambosu “Non importa se non capisci. Segui il ritmo”, è, infatti, il motto che Maria avrebbe voluto far scrivere sull’ingresso di tutti i musei e di tutte le scuole.

Sarà un filo, allo stesso modo, divenuto nastro, a entrare e uscire dalle case in modo da ricostruire l’humus in cui si riconosce una comunità, determinata dal proprio paesaggio, capace di restare solidale al di là di ogni rischio grazie alla riscoperta della propria storia, scritta nel mito delle proprie leggende, che devono infonderle consapevolezza, speranza e capacità di resistere.

Nel 1979 alla richiesta rivoltale dal sindaco del paese di realizzare un Monumento ai Caduti, Maria Lai rispose con fermezza di voler creare, invece, un’opera da dedicare “ai vivi e non ai morti”. Così nel 1981 nasce Legarsi alla montagna, un’esperienza che supera tutte quelle di carattere performativo e ambientale, esperite sino allora, per il suo forte significato politico, ma con l’inimitabile stile poetico originato dal racconto di un’antica fiaba locale. Una bambina sfugge al crollo di una grotta perché rincorre un nastro azzurro apparso inaspettatamente nel cielo, è una storia tramandata per anni dai racconti degli anziani, che diventa il motivo conduttore di un’azione svoltasi simbolicamente l’8 settembre, ma per avviare una rinascita. Nel corso di tre giorni – il primo per tagliare, il secondo per distribuire, il terzo per legare – l’intero paese di Ulassai viene coinvolto, partendo dallo squarciare da un capo all’altro i rotoli intonsi di tessuto jeans, offerti da un negoziante locale, poi passandoli di casa in casa, annodandone i lembi e appendendo pani votivi dove i rapporti si erano sviluppati in armonia o stendendolo rigido in assenza di relazioni cordiali. Dopo aver ridisegnato i rapporti della comunità passando tra le case, quel nastro azzurro di 27 km, da ultimo, fu issato in cima alla montagna da tre scalatori esperti. La festa che coronò l’evento così intensamente vissuto dall’intero paese, fu senza precedenti. Questo singolare solve et coagula, doveva infatti assumere la valenza di un Magnum Opus alchemico, trasformandosi nell’epopea di un popolo, in un inno che contiene lo spirito dell’intera comunità insieme con il suo rinnovato impegno per una missione futura. Maria Lai, chiese che tutta l’operazione venisse realizzata senza contributi da parte del Comune e che il denaro stanziato per il Monumento ai Caduti fosse invece destinato al restauro dell’antico lavatoio pubblico. Qui nell’82 realizzerà il suo Telaio soffitto, coinvolgendo nel progetto anche gli amici Costantino Nivola, Luigi Veronesi e Guido Strazza.

Da ora, sino a Stazione dell’arte nel 2006 – il museo nell’ex Stazione ferroviaria di Ulassai che ospita un corpus significativo di opere dell’artista, facendo di un luogo sconosciuto ai più un centro visitatissimo d’importanza internazionale – le installazioni ambientali con valenza pubblica, le esperienze performative di carattere teatrale si succederanno con frequenza abituale, senza che tuttavia l’artista abbandoni il lavoro più intimo che dalla prima fiaba cucita, Tenendo per mano il Sole (’84) seguìta da Tenendo per mano l’ombra (’87), seguiranno negli anni ’90 con i nuovi splendidi cicli la Leggenda del Sardus Pater, Curiosape, La Capretta, Maria Pietra, Margheritina e poi negli anni 2000 con l’invenzione delle carte da gioco de I luoghi dell’arte a portata di mano.

All’altro capo, sul versante dell’arte partecipata troviamo invece La disfatta dei Varani, per la città di Camerino (’83), il progetto di studio, ricerca e produzione per un Teatro dei Ragazzi promosso dal Teatro di Villa dei Leoni, a Mira (Venezia), nel ’91, la collaborazione con la Compagnia Teatro Fueddu e Gestu alla realizzazione de L’albero del miele amaro a Siliqua (’97), la progettazione del Museo dell’olio della Sabina a Castelnuovo di Farfa, (‘99), Il volo del gioco dell’oca e L’arte ci prende per mano a Ulassai (’03), Essere è tessere. La tessitura dà spettacolo, ad Aggius (‘08), il monumento funebre a Grazia Deledda – rimasto incompiuto -,  Andando via, rimasto incompiuto. a Nuoro (’12). Nel 2011, le fu conferito Premio della Camera dei Deputati nel 150°anniversario dell’Unità d’Italia con Orme di leggi, dedicato alla Costituzione.

Il mondo e l’universo da un lato e l’intimità della pagina scritta con le cuciture del filo, dall’altra; i piccoli oggetti che sottolineano un mondo infantile dove si gioca da vicino e l’ambiente del mondo e del cosmo a cui l’uomo estende i suoi sogni per combinare, in seguito, giochi su vasta scala. Forse il termine visionaria, può unificare queste alternative.

Il visionario ha la capacità di dilatare ciò che è minimo e lontano e di farlo deflagrare nella sua coscienza sino a fare di soggetto e oggetto una cosa sola, sospesi in una “bruciante” – perché vissuta e vivente – atemporalità; di passare da un simbolo – segno o cosa – alla sua realtà vivente, varcando la soglia che ha spento l’immenso potenziale energetico proveniente da racconti, storie e leggende per condensarlo nella struttura informativa di un semplice segno. Il suo spazio è uno “stato modificato di coscienza” che estende il proprio sentire al mondo, partendo dal mondo, per restituircelo dopo averne penetrato la verità e l’essenza.

Come Gramsci, Maria Lai resterà sempre convinta che la grande arte è quella che arriva alla gente che cammina per strada, ma diventare collettività si può, solo dopo aver coltivato nell’intimità quel cuore puro e disinteressato, che soltanto il bambino che gioca riesce a mantenere.

Solo unendo insieme l’artista, il poeta, il filosofo, il mistico, il mago e soprattutto il fanciullo si può forse avere un’idea della straordinaria testimonianza che una personalità come quella di Maria Lai ci tramanda. Il suo lascito, va ben oltre l’arte, consegnandoci vere e proprie azioni politiche cui l’arte spesso ha ambìto, senza tuttavia, arrivare a realizzarle.

Si deve al grande cuore di questa piccola, indomita creatura, se, oggi, in un mondo minacciato da continue catastrofi, possiamo trovare nelle sue sorprendenti prove ambientali un sicuro modello da applicare in tutte quelle comunità – e sono infinite – bisognose di riscatto.

Maria Lai ha compiuto infatti l’insperato prodigio di volgere verso l’oriente della vita l’immenso portato di morte che la concezione del mondo occidentale ci ha, per circa due millenni, consegnato.

 Info mostra

  • Maria Lai. Tenendo per mano il sole
  • A cura di  Bartolomeo Pietromarchi e Luigia Lonardelli
  • in collaborazione con l’Archivio Maria Lai e con la Fondazione Stazione dell’Arte
  • 19 giugno 2019 – 12 gennaio 2020
  • MAXXI – Museo nazionale delle arti del XXI secolo – Via Guido Reni 4A – 00196 Roma
  • www.maxxi.art
  • La mostra è accompagnata da un catalogo edito da 5 Continents, con testi di Maria AlicataAntonella AneddaFranco FarinelliLuigia LonardelliDavide MarianiBartolomeo Pietromarchi e Elena Pontiggia.
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Giovanna dalla Chiesa è storico e critico d'arte. Si è laureata in Storia dell'Arte con una tesi innovativa su Calder all'Università di Roma con G.C. Argan e ha lavorato, in seguito, con Palma Bucarelli presso la Galleria Nazionale d'Arte Moderna. Vincitrice di una prestigiosa Borsa dell'American Council of Learned Societies nel 1976 è stata affiliata per un anno presso il M.O.M.A di New York, dove ha arricchito le proprie conoscenze. In seguito, i suoi studi su de Chirico di cui è autorevole esperta, l'hanno condotta in svariati centri europei: Parigi, Monaco di Baviera, Atene e Berlino. Ha curato importanti mostre monografiche in sedi pubbliche: Ca' Pesaro, Palazzo delle Esposizioni, Palazzo Pitti, Ala Napoleonica del Museo Correr, Accademia di Francia. È stata docente di Storia dell'Arte dell'Accademia di Belle Arti di Roma. Ha collaborato con quotidiani e riviste come pubblicista indipendente e curato mostre interdisciplinari e convegni come: Allo Sport l'Omaggio dell'Arte (Giffoni Valle Piana 2001), L'arte in Gioco (MACRO 2003), L'Età Nomade (Campo Boario 2005), Che cosa c'entra la morte? (Aula Magna Liceo Artistico 2006, 3 Giornate di studio su Gino De Dominicis)

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