Felice Levini – Orizzonte degli eventi. La mossa del cavallo

Ironico, eccentrico, criptico, distante, arguto e soprattutto, mentale, Felice Levini ha costruito il suo “teatro delle illusioni” negli anni, attraverso una pittura esatta, quasi matematica, che concede pochissimo al piacere dei sensi (citati nella mostra da cinque splendidi dipinti), investendo tutto, invece, in quello che i francesi definiscono con la parola “esprit”.

Non ricordo un evento o una mostra, nell’ormai ampio arco del suo lavoro in cui, con cadenze regolari, l’artista non abbia colpito il segno con implacabile precisione, mettendo a punto visioni e scenari sorprendenti, per visitatori presi alla sprovvista e costretti ad arrendersi all’evidenza senza poter decifrare completamente però, né tanto meno descrivere, ciò che hanno visto o quantomeno intuito.

La sfida fra combinazioni di parole e di figure, fra categorie di segni e di forme, stringe, tuttavia, chi entra in questo gioco, nella morsa del tempo necessario ad analizzare, confrontare, controllare e verificare come sono costruite le storie, realizzate le immagini, fatte con paziente perizia in ogni dettaglio e con scienza della psicologia della rappresentazione pittorica, tanto da attraversare lo spazio delle sue invenzioni con sguardo attento, ma sempre meravigliato.

A ogni appuntamento qualcosa di nuovo entrerà nel suo caleidoscopio e qualche riferimento abituale si lascerà riconoscere come sigla della sua interposta identità, perché la caccia all’interpretazione sia più invitante, afferrando indizi da perseguire.

Dicevamo dei cinque sensi: Felice Levini vi fa riferimento, li cita, ma non si abbandona al loro godimento. Restiamo attoniti dinanzi alla maestria con cui, ad esempio nella mostra, curata con grande professionalità dall’Associazione per l’Arte Contemporanea Zerynthia (Organizzazione di volontariato ODV) al Museo Carlo Bilotti nell’Aranciera di Villa Borghese – ci vengono presentati i maestosi frammenti di classicità degli organi preposti, dinanzi ai quali esala in silhouette come fumo, l’ombra vuota dell’autore che si proietta sul muro.

Qui la matita visita la forma sulle stesure dell’olio e ne esalta la plasticità in tutte le sfumature d’ombra, ma è solo con l’intelletto che possiamo reintegrarne la storia nell’oggi, come una scommessa senza pari, quella che la mano marmorea ci tende insieme ai dadi.

Alla pienezza, alla poesia, alla placata essenza di un passato di cui paradossalmente possediamo solo frammenti, ma che, come ciò che è classico, resta modello e norma in aeternum, si oppone la corsa frenetica di un oggi con i suoi simulacri, trascritti a pennarello su un rotolo cartaceo di dieci metri, dove gli emblemi senza spessore di un abbecedario da settimana enigmistica – rivisto cum grano salis dall’autore – vengono srotolati da cima a fondo.

In caotico assembramento senza seguire canoni di scrittura come negli appunti, rivediamo allora come da un canocchiale rovesciato, i flash che s’insinuano anche in verticale o negli spazi vuoti, dei titoli o dei motteggi che hanno accompagnato tante sue mostre, insieme al corredo delle loro insegne cifrate.

Spiccano fra questi le frasi “Il MULINO DELL’ESISTENZA CHE MACINA FINO FINO E RIDUCE TUTTO IN POLVERE”/ “LA paura della morte C’IMPEDISCE DI VIVERE NON DI MORIRE”/ “NON C’E’ UN CENTRO DELL’ESPANSIONE”/ “PROGETTARE IL CAOS”.

Storia e cronaca si rincorrono fianco a fianco, ma nell’occupare lo spazio del presente s’incastrano geometricamente, mostrando che Levini sa utilizzare sapientemente l’esprit de géométrie quanto l’esprit de finesse.

La fascia rettangolare del rotolo schiacciato sulla parete, si confronta contemporaneamente con il cerchio dei 13 piatti in ceramica al cui centro sta un occhio che tutto vede e, al tempo stesso con il quadrato, rosso e verde, del tappeto a scacchiera di tutte le guerre – dalla prima mondiale ai giorni nostri – su cui campeggia il cavallo in resina bianca a grandezza naturale.

immagine per Felice Levini al Museo Carlo Bilotti nell’Aranciera di Villa Borghese

Non si tratta solo di un omaggio a de Chirico, ampiamente presente in questo museo, come sappiamo, Levini in quel cavallo, che sulla scacchiera si muove in modo inatteso saltando gli altri pezzi con mosse anomale, riconosce se stesso. Da sempre la sua è “la mossa del cavallo”, un procedere difforme, laterale rispetto alle battaglie del sistema dell’arte, ai suoi schieramenti, limiti e confini. Il cavallo – animale sacro a Poseidone e ad Apollo che proprio de Chirico riteneva dotato di capacità profetiche, capace di veicolare oracoli nel proprio stato di follia – con il suo sguardo altero e distaccato, sovrasta gli eventi e piuttosto che governarli, li scavalca con la propria indipendenza che è poi capacità di sopravviverli: in una parola, resilienza.

Felice Levini è un ironista e un moralista, proprio come lo era William Hogarth, autore, non solo of moral histories, ma di un celebre trattato di estetica The analysis of Beauty. Con le sue opere ha commentato l’attualità nel suo modo obliquo, ma con spirito corrosivo, senza mai perdere di vista le regole, i principi del comporre e ha gettato un ponte indispensabile, tra i movimenti degli anni sessanta e quelli degli anni ottanta, con uno stile inconfondibile.

La pittura è per eccellenza arte dell’illusione, così come tutta l’arte. Levini ne conosce perfettamente i fondamenti, che sono per lui soprattutto nel disegno, e li ha utilizzati con lievità e arguzia.

E’ questo il caso dell’armadietto dell’illusionista Torre Babele balbuziente (2010), o nella serie dei 14 disegni, o nelle sue celebri, satiriche performance come I punti cardinali, o ancora come nella recente serie dei 13 piatti in ceramica che ci stanno forse dicendo che, tra cielo e terra, il pranzo per un grande convivio è ormai servito.

Con perfezione sempre impassibile, che è una forma di giudizio, oggi, dinanzi a un orizzonte, particolarmente cupo, direi sinistro, Felice Levini non vuole farci alcuno sconto.

Ad esempio, non lo fa dietro il tendone che separa l’ingresso dalla piccola sala proiezioni del Bilotti, dove aveva posizionato un frammento del finale del film Moby Dick di John Huston, quando la baleniera si è già inabissata e si può solo intuire il suo lento, inesorabile naufragio nella profondità.

Secondo Tommaso Ghidini (Agenzia Spaziale Europea), l’“orizzonte degli eventi” è il limite estremo di un buco nero, il margine dove gli eventi ancora esistono. Dopo di ché ciò che chiamiamo realtà, secondo il nostro metro di giudizio, non esiste più.

Credereste che nell’epoca consegnata da almeno sessant’anni alla serialità, Levini non utilizza alcun assistente, ma continua a lavorare a ogni sua creatura da solo, come gli antichi alchimisti che non volevano rivelare ad alcuno i segreti della propria ricerca?

Il suo compito è creare illusioni anche quando paradossalmente, nulla può più illuderci, come appunto avviene nella grande favola della vita dell’uomo.

Ogni cosa seguirà inevitabilmente il suo corso, ma sino in fondo con puntigliosa voglia di resistere, sarà la stessa volontà di creare a tener desto il desiderio di vivere e di continuare a giocare la nostra partita.

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Giovanna dalla Chiesa è storico e critico d'arte. Si è laureata in Storia dell'Arte con una tesi innovativa su Calder all'Università di Roma con G.C. Argan e ha lavorato, in seguito, con Palma Bucarelli presso la Galleria Nazionale d'Arte Moderna. Vincitrice di una prestigiosa Borsa dell'American Council of Learned Societies nel 1976 è stata affiliata per un anno presso il M.O.M.A di New York, dove ha arricchito le proprie conoscenze. In seguito, i suoi studi su de Chirico di cui è autorevole esperta, l'hanno condotta in svariati centri europei: Parigi, Monaco di Baviera, Atene e Berlino. Ha curato importanti mostre monografiche in sedi pubbliche: Ca' Pesaro, Palazzo delle Esposizioni, Palazzo Pitti, Ala Napoleonica del Museo Correr, Accademia di Francia. È stata docente di Storia dell'Arte dell'Accademia di Belle Arti di Roma. Ha collaborato con quotidiani e riviste come pubblicista indipendente e curato mostre interdisciplinari e convegni come: Allo Sport l'Omaggio dell'Arte (Giffoni Valle Piana 2001), L'arte in Gioco (MACRO 2003), L'Età Nomade (Campo Boario 2005), Che cosa c'entra la morte? (Aula Magna Liceo Artistico 2006, 3 Giornate di studio su Gino De Dominicis)

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