A palazzo Collicola quattro mostre su diverse verifiche e indagini sulla realtà

José Angelino. Roma by Led 2018 - 2020, proiezione video, durata 8'27'' 

Sbarcare a Spoleto è un po’ come essere sfiorati dalla grazia. Dalla luce adamantina all’aria delicata, dalla superficie della pietra al raffinato intarsio delle facciate delle sue tante chiese e palazzi, tutto ci racconta il privilegio di questo luogo, dove influenze culturali molto diverse si sono intrecciate, lasciando una testimonianza di eleganza e di una fragranza capace di trovare l’accordo fra le differenze, in una miscela ineguagliabile.

L’accoglienza, sul piazzale della stazione, del maestoso stabile di Calder – dedicato a Teodolàpio, duca longobardo del VII secolo – ci riconduce immediatamente alla vitalità culturale di questa cittadina anche nella contemporaneità.

Grazie a figure come quelle di Gian Carlo Menotti – creatore del Festival dei Due Mondi – e di Giovanni Carandente, uno dei critici italiani più internazionali in quegli anni aurei, tra la fine degli anni ’50 e quella degli anni ’70, il nostro paese è stato in grado di aprirsi a tutto il mondo, in un confronto alla pari con le altre nazioni e di aprire nuove strade sperimentando il dialogo fra le arti visive e performative, fra l’occidente europeo a quello americano, fra la città e gli spazi museali e, nel 1962, con la mostra Sculture nella città, ideata da Carandente – in collaborazione con l’architetto Alberto Zanmatti – ha varato il primo leggendario esperimento di museo all’aperto – allestito con oltre 100 sculture dei maggiori artisti mondiali, chiamati a convivere e a interloquire con il suo esemplare patrimonio architettonico.

Palazzo Collicola s’inserisce come uno snodo fondamentale in questo contesto. Raccoglie e custodisce una memoria che dal contenitore del XVIII secolo, si estende alle esperienze innovative di cui Giovanni Carandente fu protagonista e si fece garante, con il lascito da cui il Museo di Arte contemporanea, intitolato al suo nome, ha potuto prendere l’avvio, per rilanciarle e diffonderle anche all’esterno, con la giusta attenzione a quelle premesse e l’impegno a rinnovarne lo spirito, avendo a cuore la costante integrazione fra la storia di ieri e le prospettive di un oggi che vuol gettar ponti verso il futuro.

Dalla sua nomina nel 2019, a oggi, Marco Tonelli ha camminato in questa direzione e ha mostrato di saper superare molti ostacoli, non ultimo quello del buio periodo che ci siamo appena lasciati alle spalle, portando avanti, senza cedimenti, un ottimo programma espositivo.

Le quattro mostre, che si sono inaugurate in concomitanza con l’apertura del 64° Festival di Spoleto a giugno, illustrano perfettamente questi obiettivi, con le tre personali dedicate ad artisti diversissimi fra loro, ma parimenti significativi – Giuseppe Penone, Stefano Di Stasio, e il più giovane, ma già affermato José Angelino. La quarta, Work in progress, mette a confronto senza soluzione di continuità opere della Fondazione Marignoli di Montecorona – da Federico Barocci, Raphael Mengs, Jean-Lèon Gérôme, Giovan Battista Pittoni – sino ai contemporanei Alexander Calder, Henry Moore, Domenico Gnoli e Sol Lewitt. 

Si attraversa tutta la straordinaria collezione di cui è ricco il palazzo, apprezzando le straordinarie opere di Leoncillo, Accardi, Dibbets, Mochetti, Garutti, nonché della scuola di San Lorenzo, e quelle dei nuovi acquisti, da Lo Savio a Nunzio, da Lorenzetti e Notargiacomo, a Franchina.

Bellissima è la mostra, pensata insieme all’autore, dei Disegni di Giuseppe Penone, la prima realizzata dall’artista in Italia, dopo quella del Drawing Center di New York nel 2007.

Il disegno fa tutt’uno da sempre con l’opera di Penone, non solo come progetto, ma come traccia, doppio e antenna per sondare il possibile percorso della vita vegetale, la sua realtà nascosta, eppur sempre in cammino. E se la sperimentazione dell’artista, non ha mai lasciato zone intentate per analizzare, intuire e restituire alla nostra percezione il viaggio, altrimenti sconosciuto, all’interno nell’universo naturale, è certo che il disegno è stato il primo modo per indagarne l’anatomia.

Dice Penone:

“L’arte è una verifica, un’indagine sulla realtà che cambia continuamente e l’artista percepisce questi cambiamenti e li ritrasmette nell’opera”

Ma a questa missione d’indagine e di verifica, l’artista ha aggiunto la propria sensibilità poetica. Nei segni che la natura dissemina nel mondo ha riconosciuto liberamente un andamento, uno spirito, una movenza da cui si è liberato un principio motore, come in Progetto per gesti vegetali (1984) o in Foglie (2014). Ed è magnifico, che all’idea di questa mostra sia stato d’ispirazione, anche il nucleo di opere e disegni di Leoncillo, che in molte sue sculture prese spunto dall’albero come emblema dell’umano, tanto da scrivere nel suo Piccolo diario:

“Perché faccio un albero? Perché sono io un albero. E allora tanto vale l’essere io un albero”

Questo, per dimostrare, se ancora ce ne fosse bisogno, la continuità di esperienze capaci di costituire la rete solida su cui investire per il futuro.

Anche Astanze di Stefano Di Stasio è una mostra che parte da lontano: il sodalizio di Tonelli con Fabio Sargentini, consolidatosi ancor più negli anni del lavoro al catalogo ragionato di Pascali, essendo la famiglia Sargentini in stretti rapporti con Leoncillo e anche di casa a Spoleto, sin dalla mostra dell’87 – L’Attico 1957 – 1987. Trent’anni di pittura scultura, musica, danza, performance, video –  presso la chiesa di San Niccolò.

In questo caso, è lo spunto scenografico a dominare, con il piglio teatrale sperimentato in tutti questi anni nella sua galleria da Fabio Sargentini, che non ha esitato a presentare spesso le opere dei suoi autori, fra questi lo stesso Di Stasio, dietro le quinte del piccolo teatro appositamente installato in galleria.

I dipinti monumentali di Stefano Di Stasio, campeggiano così, come pure apparizioni e metafisiche presenze, che sembrano appartenere a un transito metaforico dell’umanità.

Questo è iniziato sin dagli esordi dell’artista e più che mai attuale ancora oggi, in una prospettiva di racconto leggendario, quale quello che si addice a eroi italici e a fondatori del rango di Enea.

Gli interventi ambientali di Resistenze di Josè Angelino, curati da Davide Silvioli, formano però la punta di diamante di questa compagine, inoltrandosi nella profondità di dimensioni mai esplorate da occhi profani per spingerli a porsi problemi che riguardano anche il nostro futuro.

Il titolo allude sia a una grandezza fisica che misura la capacità di un corpo di opporsi al passaggio di una corrente elettrica, sia quella vòlta a prolungare il tempo di esistenza di qualsiasi forma di vita, anche quella umana.

Lo sguardo di Angelino, che si è laureato in fisica, si applica, come una lente di ingrandimento. a comportamenti e dinamiche di fenomeni fisici, che sono lo specchio o possono essere la metafora, nel piccolo, di comportamenti analoghi nelle macro strutture dell’universo o nella complessità dell’essere umano.

Il grande Libro della Natura, affermava Galilei nel trattato II Saggiatore, è scritto nella lingua della matematica:

la filosofia naturale è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi, io dico l’universo, ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua e conoscer i caratteri nei quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto”.

Per quale strada, allora, possiamo accostarci al messaggio del suo lavoro, se non è attraverso i canoni di nessun tipo di estetica che possiamo abbordarlo? Io credo che dobbiamo abbandonarci alla sorpresa, come quando ci troviamo dinanzi a spettacoli naturali, e soltanto dopo possiamo cominciare a interrogarci su ciò a cui stiamo davvero assistendo.

E’ questo d’altronde il metodo più antico a cui la stessa filosofia di Platone e Aristotele invitano a sottostare – il thaumazein – come vera origine del pensiero. E’ appunto dalla tabula rasa che ci fornisce lo spiazzamento della sorpresa che possiamo iniziare un percorso di conoscenza.

Negli ambienti di Palazzo Collicola, Angelino ha agito su due versanti: dalla luce al buio, dalla città al cosmo.

Con Mosquitos ci addentriamo in uno spazio luminoso caratterizzato dalla presenza di decorazioni ocra e oro, senza poter immediatamente percepire l’esistenza di presenze in piccola scala, mimetizzate nella sala. Ci avverte della loro presenza un ticchettio che ci conduce presto dinanzi alla solitaria presenza di alcune coppie di bicchieri capovolti, anch’essi decorati in oro. Sotto il calice, l’artista ha creato dei campi elettromagnetici dove dei micromagneti si agitano, colpendo insistentemente le pareti del bicchiere.

Un modo di trasformare il concetto di Natura Morta (allusione evocata dai bicchieri) in qualcosa che si esprime, come ogni forma dotata di vita, emettendo un suono.

Con lo stesso sistema di campi elettromagnetici e di micromagneti risuonanti, nello stesso contesto – Lipari – una piramide di piccole pietre pomici naturali, risuonanti delle frequenze di Schumann, posta in corrispondenza di un orologio settecentesco coronato da una Venere in costume con putto, ci offre il corrispettivo di un congegno a orologeria naturale, che pare evocare lo scorrere dell’acqua.

José Angelino. Lipari 2021, campi elettromagnetici, pietre pomici naturali, micro magneti, frequenze di risonanza di Schumann, riproduttore/amplificatore audio. 
Dimensioni variabili

Le frequenze della risonanza di Schumann sono realmente presenti sulla Terra, possono essere considerate come la media di tutti i fulmini che colpiscono costantemente il pianeta.

Nella stanza attigua, è invece il buio a dominare, per valorizzare le presenze luminose di gas argon o neon, incapsulate in contenitori di vetro soffiato. Nei loro percorsi esse disegnano figure ora azzurrine, ora rosse, ora bianche – come meteore, asteroidi o altri corpi celesti, in movimento nell’universo.

Si oppone a loro, sulla parete di fronte, un congegno i cui meccanismi sembrano alludere, invece, a suoni e movimenti prodotti artificialmente.

José Angelino. Senza Titolo 2021, riscaldatori a induzione, ferro, micro e macro dilatazioni, pietre pomici, microfoni a contatto, amplificatore audio. 
Dimensioni variabili

Chiude il percorso la proiezione in una stanza buia delle immagini di Roma By Led, dove Angelino ha voluto documentare e accompagnare, con sequenze mirate, lo spegnersi e il morire, esattamente come per le entità animali o umane, anche delle luci Led della città, che lasciano vuoti e lacune nei vari filari predisposti.

José Angelino. Roma by Led 2018 – 2020, proiezione video, durata 8’27”

Palazzo Collicola ospita inoltre i due interessanti film di Gabriele Gianni, prodotti dalla Fondazione Fendi, sulla personalità della scultrice Anna Mahler, figlia del compositore Gustav Mahler e di Alma Schindler Mahler, calamitata dalla città di Spoleto, come Sol Lewitt, con cui stabilì un forte rapporto di amicizia – e sull’artista, raccontato attraverso la memoria appassionata della moglie Carol.

A coronamento del ricco panorama espositivo spoletino, sono da segnalare la mostra di Rä di Martino Allunati, nella Torre Bonomo, a lungo centro di importanti attività organizzate dalla galleria di Marilena Bonomo tra il 1976 e il 1993 – e oggi nuovamente attiva – e Windows l’esposizione collettiva, curata da Teodora di Robilant, in collaborazione con la Galleria Alessandra Bonomo, nel chiostro di San Nicolò, che è soprattutto dedicata a nuovi o poco conosciuti talenti del panorama artistico.

Spoleto ci conferma in questo modo di aver ritrovato la propria centralità e il proprio ruolo di eccellenza.

Non ci resta che augurarsi che questo possa costituire un’utile spinta al reciproco sostegno anche con la Galleria Nazionale dell’Umbria a Perugia e con la Fondazione Burri di Città di Castello.

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Giovanna dalla Chiesa è storico e critico d'arte. Si è laureata in Storia dell'Arte con una tesi innovativa su Calder all'Università di Roma con G.C. Argan e ha lavorato, in seguito, con Palma Bucarelli presso la Galleria Nazionale d'Arte Moderna. Vincitrice di una prestigiosa Borsa dell'American Council of Learned Societies nel 1976 è stata affiliata per un anno presso il M.O.M.A di New York, dove ha arricchito le proprie conoscenze. In seguito, i suoi studi su de Chirico di cui è autorevole esperta, l'hanno condotta in svariati centri europei: Parigi, Monaco di Baviera, Atene e Berlino. Ha curato importanti mostre monografiche in sedi pubbliche: Ca' Pesaro, Palazzo delle Esposizioni, Palazzo Pitti, Ala Napoleonica del Museo Correr, Accademia di Francia. È stata docente di Storia dell'Arte dell'Accademia di Belle Arti di Roma. Ha collaborato con quotidiani e riviste come pubblicista indipendente e curato mostre interdisciplinari e convegni come: Allo Sport l'Omaggio dell'Arte (Giffoni Valle Piana 2001), L'arte in Gioco (MACRO 2003), L'Età Nomade (Campo Boario 2005), Che cosa c'entra la morte? (Aula Magna Liceo Artistico 2006, 3 Giornate di studio su Gino De Dominicis)

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