Conversando con Giuseppe Salvatori. Di pittura, di vita, di storia e d’altro

Giovanna Dalla Chiesa incontra Giuseppe Salvatori (Roma 1955), esponente del ritorno alla pittura figurativa alla fine degli anni Settanta e artista attivissimo con una ricerca di intensità etica ed estetica: con lui conversa di pittura, di vita, di storia e d’altro nell’articolata intervista che segue.

La distanza, non è solo un modo di abbracciare un orizzonte più ampio, ma anche lo stato d’animo con cui disporsi per esprimere un giudizio imparziale e obbiettivo, il segno prezioso di un disinteresse, che è essenziale all’atto creativo.

Alludendo a Proust, a proposito delle tue Perseidi – secondo episodio della trilogia iniziata con la mostra Xanto nel 2018 – hai scritto: “La distanza è una modalità della presenza, e la presenza è un momento di verità sulle cose”.

Oggi, dopo i due terribili anni della pandemia, e con un’atroce guerra in corso, la trilogia si conclude, con la mostra Elegia attica alla galleria La Nuova Pesa.

Penso da anni che la tua posizione, come quella di Felice Levini, rappresentino, nel quadro artistico italiano, uno stato di resilienza destinato a esprimere un giudizio sulla realtà – e non solo artistica – che avete attraversato, dalla fine degli Anni Settanta a oggi, con un’attitudine impassibile, tanto da rendere il vostro atteggiamento particolarmente netto nel rifiuto di competere con l’agone del profitto immediato, subordinato alle mode e al mercato contestuale.

Con grande fedeltà e riserbo avete seguito la vostra vocazione, costruendo silenziosamente una “visione del mondo” corrispondente a una postura umana e morale che è parte del vostro, etico, stare nel mondo.

La filosofa Maria Zambrano afferma che quello che ci tiene ancorati alla terra non è la forza di gravità, ma la nostalgia. E non necessariamente la nostalgia di un proprio vissuto, ma di ogni vissuto. Noi siamo, cioè, come custodi abitati da ciò che custodiscono.

Essere artista a Roma ha determinato e, direi, “significato” questa mia disposizione all’ascolto. La distanza e la memoria – è vero – agiscono da una prospettiva che il presente può solo percepire come mancanza. L’intera Recherche proustiana nasce dall’attesa di un bacio materno mancato. Tutto è segnato dalla perdita: “viviamo per dire addio”, ha scritto Rilke.

Gli artisti che ho cercato e incontrato nella mia giovinezza, erano tutti segnati da questa intensità esistenziale, erano veri  “portatori di identità”: ossia, erano maestri in una città maestra. E lo sapevano, senza avere bisogno di dimostrarlo. In seguito, la professionalità ha preso il sopravvento sull’identità.

Sono cresciuto alla luce d’intelligenze artistiche formidabili e sono stato, quindi, sollecitato a ripagare ogni attenzione con il massimo impegno. Molti di loro, ormai scomparsi, continuano ancora a essere i miei interlocutori privilegiati.

Le Perseidi da te citate, che si riferiscono allo sciame meteorico che la terra attraversa nel periodo estivo – altrimenti detto Lacrime di San Lorenzo – sono rose in forma di nomi d’uomini: rose parlanti.

In occasione della mostra alla Galleria De Crescenzo e Viesti ho immaginato una prodigiosa fusione tra i nomi mitici degli eroi della narrazione virgiliana e le mie Bocche di rose, quasi tracce di lacrime cristallizzate, in cui avvenga una fusione prodigiosa tra mito e tensione poetica.

Condivido con Felice Levini un’ “ideologia” che ci spinge in territori, dove è possibile investire un’emotività potente, liberatoria – i nostri campi di battaglia.

Tra gli artisti si tratta di complementarità, mai di coincidenze: un nascosto e incessante dialogo che ci arricchisce e completa. Forse, proprio questo, ci ha protetti da una cattiva sorte.

Ho visto cambiare le cose del mio mondo molte volte, ma le domande che mi muovono sono ancora le stesse. Quella dell’arte è una lingua, non un linguaggio. Il proliferare di linguaggi non rappresenta una vitalità dell’arte, piuttosto una deriva.

L’impraticabilità di un abito è lo scandalo del vestire, non di un corpo. Chiamare arte questo impiego diffuso dell’idea, a scapito di un pensiero e della complessità, è improprio: un modo di occupare abusivamente uno spazio.

Con il ritorno alla pittura, alla metà degli Anni Settanta, fu come se si tentasse di riempire tutti gli spazi vuoti sulla tela.

Spazi che, sin dalle avanguardie storiche, avevano aperto varchi nella mente dello spettatore, lasciando filtrare i suoi interrogativi, la sua facoltà d’interpretare.

Il discorso indiretto – proprio come nella poesia, a cui sei legato da un sodalizio antico – aveva la capacità di arrivare in profondità, infatti, più di un lungo racconto, agendo per flash, attraverso un processo intuitivo.

La pittura, quindi, con la sua “pienezza”, veniva a occupare quello spazio di libertà, che chi era ben addestrato al linguaggio ellittico dell’arte contemporanea, aveva ormai conquistato, insieme a un senso di avventura e di scoperta che sono il sale di un processo conoscitivo.

Nella cosiddetta Scuola di Piazza del Popolo, prossima alla tua generazione, era sempre viva la tradizione legata alla natura fantasmica della pittura, quella, per intenderci, risalente a Plinio il Vecchio e a Atenagora che attribuivano la nascita della pittura al primo gesto di contornare l’ombra delle figure, fissando il mobile e l’inafferrabile della vita.

Questo richiamo all’assenza è poi il connotato principale per cui l’arte contemporanea, così primitiva nella sua espressione originaria, ha potuto rivisitare anche la classicità, rivivendone lo scheletro – l’ossatura portante – quello che de Chirico definiva “demone lineare”. De Chirico scrive:

(…) nel misticismo della linea, che caratterizza un’arte veramente classica, si può scorgere l’avversione per l’insieme delle masse inutili (…) la tendenza a ridursi solo all’alfabeto religioso dei segni che formano il contorno di una figura o di un oggetto. Il profilo di un piede (…) non è il profilo di un piede come lo possiamo vedere nella natura; è lo spettro di un piede, è l’effigie demoniaca di quest’arto che l’artista classico ci rivela segnandolo per l’eternità sulla terracotta di un vaso, sulla superficie di una parete, o sulla tavola ingessata. Diremmo quasi che ogni aspetto della natura, ingannevolmente cangiante e passeggero, possiede, riguardo al mondo delle cose eterne, il suo particolare segno, o simbolo o, per lo meno, parte di esso, che l’artista classico scopre”.

In questo modo, De Chirico definisce mirabilmente la percezione del classico da parte di noi moderni.

Gli autori gnostici hanno un’idea della materia come “ombra di Dio”; il disegno che traccia la figlia del vasaio Butade, nella leggenda della nascita della pittura, è il contorno dell’ombra dell’amato in partenza, da cui poi Butade ricaverà un calco. Il disegno, così, si fa segno di un’eternizzazione della memoria.

Nella pittura della Scuola di Piazza del Popolo, la figura invece è residuale: cólta in Festa, dinamica in Schifano, tutta tragicamente nostalgica in Angeli; e così per la generazione successiva, già più inquieta, tuttavia, per le emergenti sollecitazioni neo-avanguardiste.

Nel 1977 vidi, con l’amico poeta Claudio Damiani, la mostra di Salvo da Sperone, I Ciclopi. Quell’esplosione di “mediterraneità” fece scaturire in me una nuova energia: mi diede un’indicazione sicura, per orientarmi definitivamente verso una pittura di valore plastico. In Salvo, non c’era più alcuna giustificazione concettuale, né facili approdi citazionisti: era pittura e basta.

La riflessione sull’arte era uscita definitivamente dalla “sala anatomica”, e aveva lasciato sul tavolo un corpo ormai smembrato, reso inservibile dalle teorie. Lo stesso anno, io e Claudio, andammo a trovare Salvo a Torino.

A Roma, avvicinai e compresi l’“eleganza” rara che un artista può impersonare, frequentando Luigi Ontani: una misura dell’essere, oltre il fare.

Ma l’energia – o il demone – che mi animavano erano diretti a un discorso artistico tragicamente interrotto dall’esito del secondo conflitto mondiale: una tensione culturale totalmente fraintesa, se non rimossa, dalle generazioni successive o, paradossalmente, tenuta sospesa nel tempo e nella storia a rischio di mitizzazione.

Quando una generazione è sola, sceglie lei di chi farsi erede, sostiene Cacciari; e io che venivo da una passione, quasi fanatica, per tutta l’esperienza spazialista di Fontana, materica di Burri e segnica di Capogrossi, m’immersi totalmente in quei primi decenni del secolo scorso.

Roma, in quei primi anni ’80, era un laboratorio di pensiero diffuso. Nella pittura che praticavo, e che pratico, c’era e c’è – lo riconosco – il controllo del linguaggio ellittico dell’arte contemporanea, proprio come quella vertebra dell’ossatura di cui tu parli.

Anche quell’inizio fu un atto di libertà: la fantasia di assicurarsi uno sguardo sul mondo nello spazio e nel tempo, e di farla propria.

Quando De Chirico parla del “misticismo della linea” – e io ci vedo la potenza di Masaccio – penso si riferisca non a una visione dell’opera comunicata, ma rivelata.

E il pensiero corre a Clorinda nella “Gerusalemme liberata”, che cela, sotto un elmo guerriero, le insospettabili chiome bionde, capaci di innamorare Tancredi.

In sostanza, non si può prescindere da questa “linea”, che è, e resta visibile in trasparenza. In lei gli artisti percepiscono una continuità nel già compiuto: la possibilità di dare sostanza a una mancanza.

Così anche nella mia pittura, via via, la forma è andata, mentre incontrava di nuovo sé stessa, a esaurirsi nel contorno: il controluce di una interiorizzazione. Come un ritrovarsi prossimi al “venerdì” della storia del mondo.

Oggi per me la pittura è “riposo”. Un’opera del cuore, nel senso rilkiano, che non ha quasi più bisogno, di creare materialmente.

Elegia attica, la mia mostra attuale, è proprio questo innesto di vissuto e di opera, dove le due realtà assumono, per vocazione confessionale, un ruolo di ascolto.

Capisco. È, infatti, il dialogare con un’assenza, che rende credibile sino a materializzarla, la trasposizione sul piano artistico, di ciò che definiremmo altrimenti, solo con la parola “illusione”.

La consapevolezza di fare qualcosa che non può sostituirsi alla realtà, ma può denunciarne la mancanza, così diventando capace di incarnare il limite in cui l’uomo si situa, senza pretese, anzi con naturale umiltà, tra visibile e invisibile, reale e irreale.

La frase lapidaria di Wittgenstein nel suo Tractatus : “Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere”, trova qui il proprio corollario, in qualcosa che ha a che fare con una posizione “etica” – e non più estetica – dell’artista contemporaneo, il quale, da un lato, riscopre gli archetipi e le forme primitive, ma dall’altro è capace di accostarsi alla dimensione di incertezza della scienza contemporanea, come a uno dei suoi costituenti fondamentali – vedi la meccanica quantistica – che non può dar nulla per scontato, e che, per questo, si avvicina all’idea dell’inestricabile complessità di cui è intessuto il mondo – cosmo, realtà, vita – dunque, anche le manifestazioni più antiche della sua condizione, come l’arte. Non ti sembra?

C’è però qualcosa che m’interessa capire nel tuo percorso. Dai famosi geroglifici di Bugiarda nel 1978, presentati nello spazio di Sant’Agata de’ Goti – di cui insieme a Levini, Rossano, Colasanti e Damiani fosti l’ideatore -bisogna arrivare agli anni ’90, per trovare i primi sfondamenti del supporto pittorico – quello a cui mi fai pensare, parlando del tuo amore per Fontana – in uno stile che evoca la pittura vascolare greca o, se vogliamo, anche l’arte della silhouette, in cui, dalla metà del secolo XVIII gli artisti si esercitarono.

Penso, in particolare, a Philippe Otto Runge, il grande romantico, che a fianco dell’opera pittorica di straordinaria complessità e bellezza, ne annovera un cospicuo numero.

Nella decade degli Anni Ottanta, il tuo strumento non è quello delle stesure piatte e monocrome sulla superficie, ma al contrario la plasticità di disegni, soprattutto a pastello su tela, che svolgono un costante dialogo, tra gli emblemi e i simboli araldici della città, e il turgore superbo della natura, con i suoi frutti e i suoi simboli.

L’artista non ha mai voluto fare altro, con il proprio manufatto solitario, che corrispondere alla necessità d’immaginare qualcosa, per dare sostanza visibile a ciò che avverte di superiore a sé. E questo deve avvenire nel segno di un’autenticità del fare – la nostra etica – e non nella pratica illusionista di una tecnologia diffusa: il “vitello d’oro” della contemporaneità.

Mi preme molto insistere su queste distinzioni, perché è come se la libertà artistica, nei criteri vigenti, non fosse altro che veicolo di stupore. E questo per me è una fuga dal tempo umano; da quel tempo, come dice la Zambrano, che è un patto, o il frutto di un patto. Fuori da questo patto, l’artista rimane con una libertà vuota, ma che ha preso la forma di un “umanesimo” tutto rivolto allo spettacolo, con i propri “servitori” e “giostratori”.

Il lento e inesorabile riassorbimento della figura nel suo contorno, nella mia pittura, descrive un processo di memoria attraverso la vista che si fa “tattile” e che, pur nell’immediatezza delle sue figure, percepisce ancora una distanza: “le melodie ascoltate sono dolci; ma più dolci ancora sono quelle inascoltate”, recita un verso dell’Ode su un’urna greca di Keats.

Tutta la mostra Elegia attica, rappresenta il riconoscimento, che arte e poesia hanno raccontato meglio della conoscenza storica, le verità e i sentimenti degli uomini. In questo il mio disegno si fa “incisione” e “rilievo”: tracce visibili su un corpo che impara a vivere, o forse ha trasferito questa conoscenza alla persona amata. Il “fuori da sé” espresso da Santa Teresa d’Avila.

Anche Bugiarda – nel 1978 – è la traccia visibile di un gesto giocoso e sapiente. L’espressione libera, perché giustificata da una pratica calligrafica stratificata nella storia, di un disegno capace di generare spazio dal nulla; il nulla fecondo della tela vuota. Poi si è trattato di ricostruire il paesaggio. La pittura è anche storia di generi (vedi la Battaglia di ciclopi di Salvo).

La forza vegetativa della natura ha favorito e reso efficace il desiderio di riposizionare le figure nel quadro con geometrie inedite, nonché il recupero di umori assopiti da troppo tempo. Allora, dipingendo quei quadri, supponevo di “fare anima”, alludendo a uno spogliare la scena da ogni ingombro formale, agendo come una “forbice mentale”.

Mentre ne parlo, riassaporo il piacere di quella pratica tutta vissuta sulla lama affilatissima dello sguardo. In fondo in Otto Runge c’è ancora una indeterminatezza tutta romantica.  Sono “ombre del sogno”, o “ombre di un sogno”, le sue.

La sua pittura è tutta sulla superficie della vita: la scintilla romantica che brucia, bruciandosi. Ogni sua traccia, però, può essere per me un’occasione di approdo, come certe parole poetiche.

Tornando al dialogo a distanza fra natura e città, ovvero tra organico e inorganico, geometrico e flessuoso, o persino, maschile e femminile, qual’era l’obbiettivo? Dimostrare che le diversità, che rendono opposti questi due universi, nella sfera artistica sono invece coincidenti?

Per quanto riguarda le architetture, mostravi una forte propensione alla rappresentazione di torri, pinnacoli, obelischi e minareti.

Ovvero, di singoli elementi che esprimono una funzione di raccordo per l‘intera comunità, restando visibili a distanza, e per questo rappresentando un punto di riferimento per la collettività.

Fra queste, particolarmente emblematico resta il Mulino a vento di Frank Lloyd Wright, commissionatogli dalle sorelle per portare acqua alla loro scuola, dove, all’incastro delle due forme, Lloyd Wright attribuì le funzioni del maschile e del femminile – Romeo e Giulietta, appunto –  fondate su un’inscindibile collaborazione.

Tendo poco a distinguere l’organico dall’inorganico. Il Panteismo parla di un Dio che creando si crea; e io sono come l’amico Valentino Zeichen che diceva di sentirsi un po’ evoluzionista e un po’ creazionista. In tutto c’è un sentimento di “santità”.

Nei miei paesaggi dei primi anni ’80 – I giardini – cercavo di fissare un “punto di vista” che non fosse fisico, perché questo avrebbe allontanato il soggetto nella fissità dello sguardo. Immaginavo, piuttosto, un “accecamento”: l’interiorizzazione di una scena che portasse con sé il segno della prima nascita.

La verticalità dei soggetti – torri, cipressi, obelischi -, in quella prima stagione pittorica, alludeva a questa vista dell’arte, capace di colmare un’ampia distanza: il vedere lontano e l’essere visti da lontano. Ma anche la metafora di un raccordo tra cielo e terra: il dialogo incessante tra i due mondi a cui riconosciamo ancora una valenza simbolica. Anche le mie “collane”, nei quadri esposti a La Nuova Pesa, raccontano di scale sospese tra gli uomini e gli dei, e di un’aspirazione all’alto; forse a un ritorno al mistero che ci pervade.

Così come avviene, per incantesimo, ai corpi di Giulietta e Romeo, dal genio di Wright eternizzati in un abbraccio, o al più recente Ginger e Fred, fusi in un passo di danza da Frank O. Gerhry. Tutte architetture che, nella leggerezza della visione, esprimono una poetica solidità.

Io sono molto critico verso la tendenza dominante di un’architettura da “guerre stellari”, la cui impraticabilità cancella con troppa disinvoltura ogni possibile funzione. E sono d’accordo con l’amico architetto Pediconi quando la definisce “design”: un design esploso.

Già molti anni fa, dipinsi I fratelli Fiore o della morte dell’architettura: il ritratto a grandezza naturale di due carpentieri nell’atto di presentare un loro modello ligneo della guglia di Notre-Dame. Intendevo indicare un senso di appartenenza e di rispetto del bene comune.

Tutto è sempre una conquista, anche la bellezza. L’atto d’amore vince sulla morte, perché ha un progetto più grande. E’ destinato a qualcosa di più.

Come nel Cantico biblico, la parola incarna una declinazione dell’amore, anche nella pittura, tutte le figure convergono e si fissano in questa prospettiva amorosa con il loro donarsi. Ma, come avverte Cristina Campo, c’è una “disciplina della gioia”: il rigore rispettoso che investiamo nel lavoro, quando questo è capace di farci sentire vivi in una convivenza.

La lontananza, dunque. Questo spirituale “figgere lontano il proprio sguardo”, in un naturale sollevarsi dalla corporeità della terra, per aspirare a superare il proprio interesse materiale, singolo, e andar oltre verso istanze comuni. Capisco, sì.

E questo, persino oltre i frutti, che con tanta abbondanza, la terra riserva a chi guarda in basso, vicino al grembo che li custodisce per noi. Mi sono chiesta se sono state le tue collaborazioni con il teatro, frequenti, negli stessi anni, a suggerirti un tipo d’immersione più profonda nello schermo visivo, e a mano a mano a far prevalere le sagome d’ombra e lo slittamento delle forme sulla superficie, come seguendo proiezioni di luce, capaci, simultaneamente, di ribaltarsi nel loro contrario.

Appunto come se, il luogo inquadrato nello speculum aperto, non fosse altro che il riflesso di un passaggio, verso dimensioni e movimenti incontenibili al suo interno. Un vero sprofondare nella caverna platonica.

Il formato ha un ruolo molto importante nel tuo lavoro, penso alla tua propensione per l’ovale e il tondo, ormai predominanti, e mi è impossibile non immaginarti pressoché abbracciato alle tue opere – su cui stai riverso come su uno specchio, eseguendo un lavoro meticoloso – per avvertire il corpo a corpo materiale, che si decanta, invece, nell’operazione reiterativa, quasi medianica, della fattura, attraverso una sorta di capovolgimento.

La distanza, se si trattasse del solito quadrato o rettangolo – da cui la parola quadro – sarebbe più fisica che altro, dato che la posizione dell’autore, come di norma, capiterebbe frontale, diretta a convogliare le traiettorie dello sguardo dentro lo spazio antistante.

Qui l’occhio incontra subito, invece, il piano della superficie su cui deposita il disegno, ma lo sguardo è altrove, molto più interno e, al tempo stesso, fuori dall’orizzonte delle proprie azioni.

La realtà del mondo resta all’esterno delle porzioni curve in cui tu lo ritagli, ricavando il campo operativo senza mai indicare un esatto punto di vista, un inizio e una fine. Tutto ciò che ne è escluso, per un principio di complementarità, viene, nel contempo, simultaneamente evocato, sfiora quei margini, si situa silenziosamente intorno e in continuità, anche se da quello spazio circoscritto è per noi materialmente invisibile.

Con la mente dedita alla grana minuziosa di un presente che conta l’attimo, tu puoi, così, inoltrarti ovunque, nel passato e nel futuro di cui si avverte la nostalgia e il lutto, o il vagheggiamento. Una posizione che dice l’ubiquità del tuo presente, e che testimonia, anche, per conseguenza, il tuo amore, per quell’età lontana, e tuttavia, normativa in modo perenne, che è il classico.

Nella mia pittura c’è sempre un tempo e la sua urgenza. Un’ansia operativa che non mi permette distrazioni.

Lo sguardo agisce da un “fronte” avanzato e insidioso. E’ esposto alle suggestioni di una vista rapace, ma che pure sa cogliere segnali di richiamo.

Nella cena di Emmaus, Gesù non è riconosciuto per quello che dice, ma da come spezza il pane. E’ la stessa attenzione che l’artista/apostolo investe nella realtà: una “parabola dei vedenti” contrapposta a quella dei “ciechi”, che in me, poi, diventa “lode” alle cose che vedo e riconosco nell’urgenza di essere colte.

L’urgenza di cui dicevo prima, e che devo assolutamente proiettare sullo schermo del quadro col paradosso tutto metafisico di un’ombra che si fa luce. La rappresentazione è il lasciare che le cose si svelino, perché la “conoscenza” è sempre e solo “ri-conoscimento”.

Il tondo, l’ovale – la forma astratta per eccellenza – sono il retaggio di quella mia inconfutabile passione per lo “spazialismo” e della capacità di un superamento, o di una ridefinizione della superficie data: l’illimitato in cui far danzare gli elementi.

Nella scena teatrale ho più spesso investito uno sguardo “emotivo” – ho ancora forte il ricordo della magia del sipario, che aprendosi, apriva al mondo. Nel “fanciullino” pascoliano, l’intimità di una tavola apparecchiata diffusa, riconduceva immediatamente alla dimensione d’un vissuto interiorizzato; nella “Paura” di De Roberto, la montagna – una bocca vorace fiorita di denti – è il destino che incombe sulla scena come un sudario/sipario pronto a scendere in un abbraccio mortale.

Sono tutte esperienze che hanno attinto dalla mia visione pittorica, ma anche arricchito lo spirito di responsabilità essendo quella teatrale una macchina collettiva.

In fondo, ogni progetto installativo, com’è per Elegia attica, investe su una teatralità; su quel “colpo di teatro” che è l’invenzione.

La lunga teoria di tondi, in successione di misura, è la costruzione d’un ritmo narrativo: il doppio binario di lettura che, partendo dalla narrazione del poema, scorre in parallelo con quello visivo. Il tutto concepito con flessibilità, per un’eventuale adattabilità, anche a contesti diversi.

In luglio, Elegia attica sarà al MART di Rovereto, senza alcun rischio di dispersione, anzi rinascendo al nuovo spazio.

Certo, è la potenza della parola omerica, e di quella virgiliana a risuonare in queste mie opere, ma anche la consapevolezza di non poter prescindere da questa visione dell’uomo.

E puoi capire che parlo di una materia su cui può venir investita la vita artistica di intere generazioni. Anzi, è la materia! E la tecnica, la nostra anima.

La Trilogia iniziata con un omaggio alla battaglia di Achille sul fiume Xanto, continuata con Perseidi nel 2018, e ora alla sua ultima tappa con Elegia attica, è forse l’epitome di ciò che i greci definivano con la parola ecfrasi (ἔκϕρασις), intendendo con essa la descrizione letteraria di un’opera d’arte visiva, come nell’Iliade quella dello scudo di Achille.

Tu hai invertito il processo traducendo l’opera letteraria in un poema visivo e questo tipo di intreccio che attraversa un campo specifico con un linguaggio esterno, ne amplia la risonanza, suggerendo infiniti altri spunti di lettura in modo da rendere palpitante un passato estremo che s’incarna nuovamente nella rete di un vissuto prossimo e presente.

Con Ilio (2018) – un’allusione alle mura di Troia – Elegia Attica ci viene incontro da una curvatura del tempo: la foto del muretto di un cimitero di Sarajevo crivellato dai buchi delle pallottole.

Così, appunto, la storia e il mito incontrano il presente del nostro vissuto, in una catena infinita di rimandi che inanella la nostra esistenza, come fa il simbolo ricorrente della catena nelle tue opere, che qui attraversa sulla verticale la zona tra le tenebre e la luce.

L’ansia di uno sfondamento altrove, nei controluce creati dalle silhouette come un tuffo nell’ignoto, ora si è placato lasciando il posto ai bianchi dalla consistenza lattea, e agli ori aurorali, dove allo sgomento, si è sostituito il rilievo tangibile dell’esistenza, che il lavoro del tempo ha levigato sino all’attuale verginale, cristallina presenza, tradotta nel gesto consapevole di una riappropriazione.

Sono sempre molte e spesso difficili da riassumere, le peripezie che ci conducono al lavoro finale.

Negli ultimi anni, ad esempio, è stato l’operare per cicli a guidarmi, per evitare la dispersione del lavoro. Il bianco “chiama” il bianco, che è il colore del lutto nelle religioni asiatiche, ma in me è anche la memoria viva del ricamo materno.

Ho realizzato, nel 2013, un’opera permanente per il soffitto d’ingresso dell’Aula Magna del Liceo Artistico di via Ripetta, applicando dei rosoni in gesso tratti da disegni originali cinquecenteschi.

Li ho disposti, seguendo fedelmente la mappa dei nei e delle macchie sul corpo, ormai anziano, di mia madre, con quella duplicità che ogni opera porta con sé, di sacro e di profano, insieme.

Una sorta di costellazione, insomma, a cui ho dato il nome di Campus stellae. E ho ribaltato, così, il senso della preghiera “così in cielo, come in terra” nel suo rovescio specchiato, “come in terra, così in cielo”. Un “corto circuito”, dove il bianco del ricordo si trasforma nella luce delle stelle: quelle che anticamente guidavano il cammino dell’uomo.

Così, quando incontro gli studenti non faccio che sottolineare loro il mio interesse per il recupero di una “primarietà” della visione. Lodando quello che sono le epifanie domestiche di un vivere appartati, come nutrimento di una sensibilità ansiosa.

Quella misura perduta del vivere a cui appartiene l’immagine, con la sua capacità evocativa e allo stesso tempo profetica. La figura manifesta la sua bellezza formale e la carica di verità che ha in sé, come la parola poetica. Quel segno di “traguardo” e “centro” che è sempre sforzo di verità in un’economia d’integrità umana.

Come dice Josif Brodsky, l’estetica è la madre dell’etica.

www.giuseppesalvatori.it

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Giovanna dalla Chiesa è storico e critico d'arte. Si è laureata in Storia dell'Arte con una tesi innovativa su Calder all'Università di Roma con G.C. Argan e ha lavorato, in seguito, con Palma Bucarelli presso la Galleria Nazionale d'Arte Moderna. Vincitrice di una prestigiosa Borsa dell'American Council of Learned Societies nel 1976 è stata affiliata per un anno presso il M.O.M.A di New York, dove ha arricchito le proprie conoscenze. In seguito, i suoi studi su de Chirico di cui è autorevole esperta, l'hanno condotta in svariati centri europei: Parigi, Monaco di Baviera, Atene e Berlino. Ha curato importanti mostre monografiche in sedi pubbliche: Ca' Pesaro, Palazzo delle Esposizioni, Palazzo Pitti, Ala Napoleonica del Museo Correr, Accademia di Francia. È stata docente di Storia dell'Arte dell'Accademia di Belle Arti di Roma. Ha collaborato con quotidiani e riviste come pubblicista indipendente e curato mostre interdisciplinari e convegni come: Allo Sport l'Omaggio dell'Arte (Giffoni Valle Piana 2001), L'arte in Gioco (MACRO 2003), L'Età Nomade (Campo Boario 2005), Che cosa c'entra la morte? (Aula Magna Liceo Artistico 2006, 3 Giornate di studio su Gino De Dominicis)

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