Ipocrisia Ai Weiwei. La Cina l’ha inventato, l’Occidente l’ha diffuso

Chinese dissident artist Ai Weiwei looks on as he visits a migrant's makeshift camp on the Greek-Macedonian border, near the village of Idomeni, Greece, March 9, 2016. Ai is in Greece to shoot a documentary. REUTERS/Stoyan Nenov

Il mondo dell’arte, della cultura e dei media si indigna per la frase dell’artista Ai Weiwei:

“Il coronavirus è come gli spaghetti: i cinesi lo hanno inventato e gli italiani diffuso”.

Reazione comprensibile, ma fuori tempo massimo, visto che sono decenni che le boutade di Weiwei trovano consenso in tutto l’Occidente con poche o rarissime indignazioni, bensì acclamazioni, omaggi, mostre e incremento delle quotazioni d’asta.

L’artista dissidente cinese Ai Weiwei mentre visita il campo di migranti improvvisato sul confine greco-macedone, vicino al villaggio di Idomeni, in Grecia, il 9 marzo 2016. REUTERS / Stoyan Nenov

Per rimanere ai due casi più recenti di queste trovate mediatiche: i gommoni di salvataggio di migranti esposti sulla facciata di Palazzo Strozzi nel corso della sua mostra a Firenze del 2016 (il tragico trasformato in arredo) e il bambino siriano spiaggiato a cui l’artista cinese ha fatto il verso facendosi fotografare nella stessa posa (il tragico trasformato in cattivo gusto).

Eppure Ai Weiwei è stato considerato l’artista più influente nelle classifiche di Art Review nel 2011 e subito dopo aver riottenuto il passaporto dal governo cinese dopo anni di arresti domiciliari gli è stata offerta nel 2015 una cattedra presso l’Università delle Belle Arti di Berlino con tanto di studio, salvo poi tutti, anche in questo caso, indignarsi perché avrebbe criticato la società tedesca e il suo modello di democrazia come chiuso e razzista.

Qualcosa non torna, ma non è in Weiwei, il quale continua a fare il suo lavoro da molti anni ormai, compreso girare un film sui migranti (Human flow del 2017, proiettato alla mostra del Cinema di Venezia) nel quale lo smisurato valore estetico e il suo eccessivo protagonismo non sono passati del tutto inosservati alla critica più intelligente.

Quando nel 2011 il governo cinese lo aveva incarcerato per tre mesi e mandato poi ai domiciliari (il suo vero trampolino di lancio nell’art system) tutto l’Occidente era sceso in campo per difenderlo e farne un eroe del libero pensiero. Questo presupposto ha offuscato da allora in avanti il giudizio obiettivo su un artista che essenzialmente ha approfittato del suo stare sempre a metà (prima architetto di stato durante la progettazione dello stadio delle Olimpiadi di Pechino e subito dopo oggetto di censura, prima campione dei diritti umani e oggi ritenuto un cinico come nel caso della battuta su spaghetti e coronavirus), senza che nessuno si ponesse la questione di una strategia che andava ben al di là di valori etici e morali.

Diciamocelo chiaramente: Weiwei ha approfittato delle debolezze e dei difetti insiti nelle pratiche della libertà di parola, espressione e stampa o in genere dei valori occidentali o forse neoliberali (libertà di mercato, politically correct, difesa delle pari opportunità, lotta alla censura di stato) per volgere tutto a suo favore. E in Occidente tutti ad applaudire.

Ora che le stesse armi sono rivolte contro quegli stessi valori, ci si indigna.

L’ipocrisia è prima di tutto in chi ha sempre lodato Weiwei, ma solo a patto, implicito, che criticasse il proprio regime di appartenenza, senza capirne le implicazioni di opportunismo tipico di tutti gli artisti contemporanei che vogliono farsi portavoce di diritti umani, in un sistema chiuso  e rivolto essenzialmente ad addetti ai lavori, al mondo dei media e dello spettacolo, delle aste milionarie e del mercato, delle biennali e delle riviste specializzate, delle gallerie e delle fiere internazionali.

Sarà finalmente ora di svegliarsi e di riconsiderare tutto il suo lavoro, di fronte al quale il cinismo sensazionalistico e la spregiudicatezza dei vari Cattelan, Hirst e Koons almeno non si nasconde dietro pretesti morali e di impegno civile, ma va dritto al cuore del sistema dell’arte e della sua spettacolarizzazione.

immagine per Ai Weiwei

Il giochino mediatico di Weiwei era da tempo scoperto, ora finalmente ancor più, se possibile. Quel che rimane è però ancora l’ipocrisia endemica di chi non lo ha saputo scorgere a tempo debito (diciamoci la verità: un po’ tutti ci siamo cascati). Ma chi poteva permettersi di criticare un artista censurato dal regime cinese, figlio di un poeta esiliato, il cui blog è stato oscurato, che ha operato mostrando zainetti dei bambini vittime di terremoti o canotti di soccorso ai migranti?

Pochi hanno compreso che in realtà i contenuti facevano parte di una strategia di auto promozione, come testimonia di fatto la sua ultima trovata: produrre in serie, per un’azienda di articoli per la casa tedesca, giacche salvagente componibili come oggetti di design e arredo domestico.

Non facciamoci illusioni: l’arte contemporanea oggi non può e non sa farsi carico di problemi che vadano al di là di se stessa. In tale ambito, impegno, partecipazione, critica ideologica, attivismo, dissidenza, ecologia, sostenibilità, sono spesso maschere, anche inconsapevoli se vogliamo, che coprono ben altre intenzioni (inserimento nel mercato, attenzione della critica e dei media, presenza in collezioni museali). La classica forma di ideologia che oscura le reali forze in campo e promuove le strutture del potere e della classe dominante.

Weiwei l’ha inventato la Cina con la complicità dell’Occidente. Ora sarà tempo di vaccinarsi.

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Marco Tonelli (Roma, 1971), critico e storico d’arte, attualmente è Direttore artistico di Palazzo Collicola e della Galleria d’Arte Moderna di Spoleto. È stato Direttore artistico della Fondazione Museo Montelupo Fiorentino, curatore di Scultura in Piazza a Palazzo Ducale di Mantova, Assessore alla Cultura per il Comune di Mantova e Commissario inviti della XIV Quadriennale di Roma. Ha curato il volume Pino Pascali. Catalogo generale delle sculture 1964-1968 (2011).

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