Bene ma non benissimo.
Il coronavirus, questo potente e malefico virus che si è introdotto così prepotentemente nelle nostre vite, ha prodotto molte reazioni, anche sorprendenti. Un po’ in tutti. Anche nella cultura, anche nell’arte. Di colpo i musei hanno chiuso. Le gallerie anche, tutto fermo, statico. In un attimo molti si sono buttati sulla comunicazione online, su quei famosi canali social, da YouTube a Facebook, Instagram, twitter. Un numero incredibile di proposte, di eventi, di contenuti.
Bene ma non benissimo, dicevamo. Perché non ci si improvvisa comunicatori. I social sono diventati uno strumento importante, serio. Già da alcuni anni. Che alcuni musei già utilizzavano molto bene, altri benino, altri per niente. Nel momento di grande vuoto, tutti si sono riversati in questo circo senza avere però gli strumenti necessari, senza comprendere che comunicare senza una idea, senza un piano editoriale, senza competenze, alla lunga farà un danno. Enorme.
Lasciare alla provvisorietà questi strumenti è quanto di più sbagliato si può fare in questo momento. Se non si sa bene cosa fare, cosa comunicare, è meglio tacere. O attenersi agli standard precedenti. Senza cercare di seguire un scia di comunicazione che non si è in grado di sostenere per molto. E lo stiamo già vedendo. Perché può andare bene una settimana, due, ma se alla terza settimana non si è fatto un piano editoriale di interesse, ecco che si sgretola tutto. Un piano editoriale serio, che comunichi il cambiamento di rotta del museo, pur procedendo nella sua rotta tradizionale, ha bisogno di persone esperte, che questo lavoro lo stavano facendo già da tempo.
Mi sono fatta un giro sui social dei musei, sui loro siti. Ho visto tante cose, tantissime, che anche se avessimo tutta la giornata libera non potremmo sicuramente partecipare alla quantità degli eventi, delle cose da fare, da seguire, da vedere.
Un enorme blob vomitato addosso agli spettatori, che spesso non sanno cosa farsene o come utilizzarlo. Va rivisto, secondo me, questo modo di veicolare le idee, soprattutto in questo momento in cui il tempo è dilatato.
Per la cultura, per l’arte soprattutto, questo è il momento giusto per prendersi del tempo e capire quali strumenti si potranno utilizzare per cercare di condividere al meglio certi contenuti, partendo da questa situazione di emergenza, ma pensando ad una idea che abbia una prospettiva lunga, definitiva. Non è ora che dobbiamo conquistare gli spettatori, adesso forse è anche un gioca facile, ora che tutti si trovano come unico strumento per affacciarsi al mondo un Device qualsiasi. Adesso, per i musei, per le gallerie, per tutti noi, è arrivato il momento di studiare nuovi modi di comunicare, senza intasare, come si sta facendo ora, le autostrade del sapere con mille cose.
Ci sono musei che con la comunicazione ci lavoravano già, mi piace ricordare tra questi Gallerie Barberini Corsini e il Maxxi, a Roma. Esempi eccellenti anche a Torino con il museo Egizio, o il Parco Archeologico di Pompei. Parliamo di realtà che già in tempi non sospetti avevano trovato forze ed energie, soprattutto economiche, da investire in un tipo di comunicazione che si definisce nei social.
Poi ci sono le piccole realtà, con impiegati o direttori bravi, che hanno studiato o che stanno cercando di comprendere il linguaggio della comunicazione, e che dunque stanno provando a farsi trovare nel delirio delle tante informazioni che ci troviamo di fronte.
Il rischio, in questo momento assai complesso, è che si perdano le cose fatte bene. Sarebbe quindi opportuno continuare a lavorare seguendo i piani editoriali già programmati da tempo, come già accennato, ovviamente inserendo opportune modifiche date dalla situazione, non impolpando le pagine social di foto di frasi di immagini, senza senso e senza una logica. Il timone va tenuto dritto, senza farsi prendere dall’ansia di prestazione del fare tanto, che spesso significa fare male.
Vediamo galleristi che raccontano le proprie mostre attraverso i social, direttori di musei, i curatori, gli artisti che si mettono davanti ad una videocamera e ci provano. I primi giorni sembrava anche interessante, un nuovo accesso al contemporaneo. Adesso che il tempo è passato, che le sperimentazioni sono state fatte, è tempo di passare la palla a chi questo mestiere lo fa di professione.
Troppa approssimazione fa solo male. Penso anche ai termini utilizzati, i virtual tour, gli eventi virtuali. Che sono, a cosa servono chi li sa fare? Rubiamo le idee ai nostri amici fuori dall’Italia, che da tempo ci danno saggi di conoscenza in questo senso, pensiamo realmente che un virtual tour non può essere un power Point di immagini infilate una dietro l’altra, e che un virtual tour non può semplicemente essere una videocamera che ci fa vedere cosa c’è dentro al museo. Così non andiamo lontani, si rischia di diventare noiosetti, ripetitivi e poco inclini a farci conoscere.
Sulla comunicazione nei social siamo ancora molto poco preparati, noi, in Italia, sempre pronti invece a darne un giudizio negativo come fossero giochini per ragazzini, o solamente palliativi per persone sole, si stanno dimostrando in questo momento il canale unico di divulgazione. Sono diventati le nostre finestre sul vivere quotidiano.
È di qualche giorno fa l’articolo di Antonio Dipollina che afferma addirittura che il palinsesto più seguito, e qui parliamo di televisione, è quello che troviamo su Instagram oramai. Anche lì, decine di cantanti, musicisti, attori. Ma lì le cose vanno meglio, perché le persone sono abituate a stare davanti ad una videocamera, a parlare con un pubblico che è assente anche se presente. Per la comunicazione dell’arte c’è ancora tanto da fare. Di tempo ne abbiamo, sfruttiamolo.
Da alcuni anni lavora anche come Social Media Curator.
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