La chiusura dei teatri. Usare trenta giorni per disegnare un nuovo futuro.

immagine per La chiusura dei teatri. Usare trenta giorni per disegnare un nuovo futuro.

immagine per La chiusura dei teatri. Usare trenta giorni per disegnare un nuovo futuro.Per un mese saranno chiusi teatri e cinema (oltre a numerose altre attività “socializzanti”). Lo abbiamo saputo definitivamente ieri e, dopo i primi attimi di orrore, stupore, disperazione, rabbia e reazione, oggi già si sentono i primi distinguo.
Segno che ci si è in buona parte rassegnati o, quantomeno, si è fatto buon viso a cattivo gioco. Si cominciano a trovare perfino delle positività.

Già, cosa vuoi che siano 30 giorni?

Niente, è vero. Per molti teatri un mese si traduce in 4 o 5 spettacoli saltati, per un totale di una quindicina di repliche, perché si sa, nei teatri piccoli si va in scena dal giovedì alla domenica (quando va bene) oppure solo nel fine settimana.
Trenta giorni passano in un baleno, lo pensa anche il Ministro Franceschini che si mostra contrito per la sorte di un settore, ma fiero di lottare per la salute dell’umanità.

Un’umanità, quella che frequenta i teatri ed i cinema che, stando alle ultime statistiche, ha prodotto un solo contagiato su circa 350mila spettatori. Perché le sale si sono adeguate da subito alle norme, sono state rigorose nel distanziamento, nell’uso delle mascherine e nella sanificazione.

Però, poi, la gente esce e si assembra“, dicono i bene informati.
Se questo è vero, il problema non è più nelle sale, quanto nella possibile superficialità degli individui.
Intervenire su questa deprecabile tendenza umana avrebbe bisogno di una comunicazione basata sulla conoscenza e la coscienza piuttosto che sull’istigazione della paura e del panico. E, invece si trova la soluzione più semplice: proibire ciò che potrebbe innescare comportamenti imprudenti.

Ma, alla fine, i teatri chiudono perché c’è pericolo di assembramenti o perché sono ritenuti un’attività non essenziale?
Quest’ultima ipotesi sembra essere il vero problema: “La fortuna d’essere artisti italiani è in Italia una pena da scontare a vita – dice il regista e drammaturgo Francesco Randazzoperché l’ammirazione che in tutto il mondo si tributa all’arte e agli artisti italiani, enorme, smisurata, una specie di aura che ti ritrovi addosso e che ti sprona a fare del tuo meglio per non deludere, è direttamente proporzionale al disprezzo e all’umiliazione che dobbiamo subire in patria“.

Il Teatro è un settore che, probabilmente, muove meno interessi di altri; che, a stento rende in denaro, potere e, ormai, neanche più in voti; che può essere utilizzato solo per far bella figura o per sostenere qualche scambio internazionale: tutte cose ampiamente sacrificabili.

Il Teatro, invece, è un settore estremamente variegato, del quale gli stessi operatori conoscono solo parzialmente le innumerevoli sfumature. È un ambiente in cui si muovono al contempo le grandi produzioni e le piccole associazioni indipendenti; coloro che fan parte del sistema-cultura più ampio, chi degli infinitesimali circuiti locali, quelli che sono fuori da qualsiasi sistema.

Eppure tutti questi diversi piani, contribuiscono a creare occupazione ed economia. Sono il sostegno, anche minimo, di individui, coppie, compagnie, famiglie, “persone – come scrive Maria Genovese, autrice e redattrice radiofonica – con diverse professionalità, guadagnate negli anni, che lavorano come tutti e che come tutti devono portare a casa la pagnotta, che questo racconto della pagnotta piace tanto”.

E mentre il Governo si intestardisce a trovare misure di ristoro, contributi, offe, elemosine e soluzioni alla pagnotta, ci si dimentica che la cultura è difficilmente assimilabile all’impresa, anche se ci si prova da qualche decennio a trasformare tutto in un’operazione di mercato.

Fare cultura, fare arte, fare teatro è prima di tutto azione creativa. L’artista, l’attore, l’operatore culturale – lo sappiamo – parte da una sua esigenza, da un suo sogno, da un’idea, da qualcosa che sente di dover comunicare e solo dopo, parecchio tempo dopo, passa alla fase di monetizzazione, di commercializzazione del suo progetto.

La parte che lo fa andare avanti, lo stimola, quello che fa convergere energie e creare reti, non corrisponde a una quantificazione del guadagno. Per quanto questo possa essere importante, non sarà il miraggio del contante a permettere la realizzazione di un’opera. Saranno sempre gli obiettivi degli artisti, le loro passioni, le loro emozioni.

Per un mese saranno “sospesi gli spettacoli aperti al pubblico”. Questo, però, significa che gli attori potranno riunirsi per trovare soluzioni, per immaginare il futuro, per inventare altri teatri. A distanza di sicurezza e con la mascherina, ovviamente.

Anche perché, alla fine dell’epidemia, la gente probabilmente non sarà cambiata, ma là fuori – e lo dico con molto dolore – troveremo forse il 50% di quello che c’era prima. Serve dunque immaginare il nostro futuro, disegnarlo, sperimentarlo, provarlo. Trovare idee che mirino ad occupare gli spazi fisici o mentali che man mano vengono meno. Trovare un disegno, pensarlo, renderlo un obiettivo. Cercando miracolosamente di discuterne assieme, di scambiarsi il più possibile le visioni e le sperimentazioni, perché non sembra avere più molto senso difendere il proprio territorio nel momento in cui i territori vacillano.

Se questo virus ha avuto un pregio è stato quello di offrire la possibilità di distinguere le cose che hanno valore da quelle inutili che abbiamo accumulato in moltissimi anni di consumo rapido e irretente, che ha preso possesso anche della cultura.
Una corsa a produrre e consumare, progetti e realizzazioni destinati a scomparire immediatamente. Lo vediamo con i libri che restano sullo scaffale meno di quindici giorni, con i film nelle sale per una settimana o poco più, con gli spettacoli in scena tre giorni e poi, se va bene, riproposti nell’estate dei festival. Tutto questo solo per coprire le spese, spesso a discapito della qualità, dei contenuti o della loro efficacia politica.

Si chiedeva l’attrice Elena Arvigo: “Fare cultura significa programmare spettacoli più o meno “impegnati” ? Se faccio Sartre in Siria ha senso? Cosa vuol dire oggi fare cultura qua – con quello che sta accadendo qua? Cercare di fare qualche data? Qualche spettacolo?  Che sensazione avete avuto andando in scena questi mesi? Il mondo sì è capovolto? Forse dobbiamo re- visonare il senso? Quali sono stati gli interlocutori in questi mesi? Come si sono comportati i Teatri Pubblici? Sono stati davvero così coraggiosi come stanno scrivendo? Ricominciare dal basso – ma dal basso davvero…” .

E dal basso si potrebbe tentare di ragionare su un’ecologia della cultura. Seguendo lo stesso sentimento e trovando lo stesso significato che ormai in buona parte ci conduce a essere responsabili dell’ambiente. Estrarre, produrre, acquistare, consumare, buttare, distruggere, sono verbi applicabili anche alla cultura. Conservare, recuperare, risparmiare, mantenere,  riproporre, riciclare, anche.

Quando torneremo ad andare a teatro, perché lo faremo e non smetteremo mai, avremo gli strumenti utili per una visione più accorta, intima e universale da trasferire non solo agli spettatori, ma anche e soprattutto a chi indicheremo le basi per una reale politica culturale.

+ ARTICOLI

Giornalista culturale e autrice di testi ed adattamenti, si dedica da sempre alla ricerca di scritture, viaggi, tradizioni e memorie. Per dieci anni direttore responsabile del mensile "Carcere e Comunità" e co-fondatrice di "SOS Razzismo Italia", nel 1990 fonda l’Associazione Teatrale "The Way to the Indies Argillateatri". Collabora con diverse testate e si occupa di progetti non profit, educativi, teatrali, editoriali, letterari, giornalistici e web.

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e statistici. Cliccando su "Accetta" autorizzi tutti i cookie. Cliccando su "Rifiuta" o sulla X rifiuterai tutti i cookie eccetto quelli necessari per il corretto funzionamento del sito. Cliccando su "Personalizza" è possibile selezionare quali cookie attivare.