La parola al Teatro #91. Le Mille e non una notte di più. All’incrocio della violenza sulle donne di ieri e di oggi

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C’è molto entusiasmo a guidare Maria Sofia Palmieri nel lavoro di messinscena del testo di Silvia Bordi Le Mille e non una notte di più, che vuole guardare fin dentro il seme della violenza contro le donne partendo da una delle storie di femminicidio e riscatto più antiche del mondo: quella che dà origine ai racconti con cui la principessa Shahrazàd intende fermare la mano del sultano Shahriyār nella sua cieca vendetta contro il genere femminile.

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Perché di donne uccise dai propri mariti, compagni, familiari o semplicemente uccise per il solo motivo di volersi sentire libere, la letteratura mondiale è colma, tanto da darci la certezza che questa condizione di martirio che oggi sembra – con grande fatica – arrivare alle coscienze di molti, in realtà abbia pavimentato la strada dell’evoluzione, del progresso, della trasformazione delle società e delle civiltà.

Il testo in scena al Teatro Trastevere, infatti ci porta in un tempo senza tempo all’incrocio fra la Persia del IX secolo e l’Iran di oggi, dove le donne non smettono di morire anche solo per essere state viste indossare non correttamente il velo.
In questo tempo la finalmente libera Shahrazàd incontra sua sorella, una sua sorella, una donna per la quale vale la pena di rischiare, di continuare a provare a fermare la violenza.

C’è entusiasmo, dicevamo, e c’è soprattutto un lavoro collettivo di attori, costumisti, danzatrici, curatori d’immagini, sponsor; c’è un’interazione annunciata con attivisti e influencer. Attorno a questa produzione si muovono molti sogni e molta passione.
Eppure al pubblico arriva un’evidente difficoltà nel costruire uno spettacolo che porti con sé e dentro di sé lo spettatore; che vada oltre la parola narrata, che lo conduca dove ancora non è riuscito ad arrivare.

Come spesso accade nelle produzioni contemporanee si dà più spazio al nominare le cose che al mostrarle. Vale più presentare gli artefici e i loro ruoli che vederli agire.

E così in scena, nonostante alcune intuizioni interessanti, assistiamo soprattutto ad un’assenza di ritmo: nei tempi scenici, nelle battute, nei movimenti; nella musica e nelle luci (che pure, in una prima assoluta sono defaillances comprensibili e scusabili), così come nelle danze, tutte troppo lunghe e decontestualizzate (tranne forse quelle delle due mogli redivive del sultano).

Mescolare danza araba e taranta, infatti, avrebbe senso se la narrazione portasse a poter godere di questo stupore, ma la storia porta verso un’altra direzione e, allora, perché non seguire il senso del racconto in modo da offrirlo anche a chi guarda?

In scena, oltre alla regista Maria Sofia Palmieri, Michael Dodi (con una buona tecnica vocale, ma qualche incrinatura nell’interpretazione) e Fabrizia Sorrentino (brillante, presente e coinvolgente, grazie anche alla sua esperienza soprattutto teatrale) e le danzatrici Paola Manca e Elisa Scapeccia col corpo di ballo delle Hafla Dancer.

Crescerà sicuramente questo spettacolo che ha gambe forti; sarebbe bello che crescesse anche grazie a un confronto con altre modalità di fare teatro.
Cercando di usare la voce senza farsi sedurre dall’intimismo televisivo che in scena (per quanto di moda) non sortisce un vero effetto.
Cercando di evitare almeno alcune delle entrate di spalle che impacciano il movimento e non sono supportate dalla potenza vocale.
Studiando, e magari copiando, da altre suggestioni (teatrali, cinematografiche, televisive…), ad esempio nella scena in cui le ancelle ingioiellano e truccano Shahrazàd, in modo da migliorarne la gestualità.
Lavorando  con maggiore profondità sulla psicologia nuova e umana del sultano che qui perde in parte la sua potenza temibile e viene raccontato nella sua vulnerabilità e nel suo tormento interiore.

Il testo è valido, le idee ci sono. Aspettiamo di vederlo come una danza dell’anima.

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Giornalista culturale e autrice di testi ed adattamenti, si dedica da sempre alla ricerca di scritture, viaggi, tradizioni e memorie. Per dieci anni direttore responsabile del mensile "Carcere e Comunità" e co-fondatrice di "SOS Razzismo Italia", nel 1990 fonda l’Associazione Teatrale "The Way to the Indies Argillateatri". Collabora con diverse testate e si occupa di progetti non profit, educativi, teatrali, editoriali, letterari, giornalistici e web.

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