Ai margini del tempo. Tra le opere di Beatrice Pediconi

Scrivere ai margini di una pagina di quaderno fa sì che si faccia più caso a quello che si scrive, perché si ha uno spazio limitato. Questo pensiero che una volta un amico ha condiviso con me, mi è tornato in mente avanzando tra la recente produzione di Beatrice Pediconi  (Roma, 1972 – vive e lavora a New York) esposta nella sua personale (Nude) in corso a Roma.

Difficile soffermarsi sui margini ad una prima osservazione di queste opere.

In effetti i lavori in mostra (la terza dell’artista alla galleria z2o di Sara Zanin) restituiscono molto spazio vuoto, quello delle carte cotone di varie dimensioni che sceglie come supporto di questo suo ultimo ciclo.

Sono spazi bianchi che si aprono come ampi respiri ad accogliere minime tracce filiformi, esili, scomposte o ricomposte.

Entrando nella prima sala, sulla parete che ci ritroviamo davanti, queste tracce sono state bloccate su piccole carte, incorniciate e riunite secondo un disegno geometrico sul muro lasciando a noi la sensazione di trovarsi di fronte ad una serie di simboli, carte di un alfabeto sconosciuto.

Questi segni restituiscono un movimento rapido e delicato insieme, un colore mai uniforme ma definito come può essere il segno lasciato da un pennello sporco di china o di acquarello. La casualità sembra aver accompagnato il gesto che le ha lasciate lì, senza predisposizioni di alcun tipo, ma pur sempre presenze testimoni di un’azione, resti di una materia dissolta o consumata.

Untitled, anche attraverso questi minimi corpi, trasmette una sensazione di “materia viva” – riprendendo un’espressione che Cecilia Canziani, la curatrice, sceglie sapientemente – che si fa ancora più impellente una volta svelato il processo di creazione che vi è dietro.

Il segno di fatti non è di natura grafica, ma è un ritaglio di fotografia, per la precisione il margine della stampa fotografica, lì dove si incontrano l’immagine stampata e la carta bianca del supporto che Beatrice ha recuperato attraverso un processo chimico che si fa parte fondante di una riflessione sullo scorrere del tempo, sulla possibilità di narrare questo flusso continuo bloccandolo in una forma, ma preservando tuttavia la percezione di quell’inevitabile movimento di trasformazione e evoluzione che ogni passaggio porta con sé.

Più che mai in questo processo si riflette il pensiero che l’accompagna: ritroviamo l’urgenza sentita dall’artista di tornare indietro, riprendere i lavori realizzati per partire da lì e andare a cercare quello che è andato perso, forse rimasto nascosto. “Come se il senso fosse nella soglia”, evidenzia la curatrice: nel margine, per l’appunto, ritroviamo la memoria tralasciata, rintracciamo quel tempo perduto che viene così portato in superficie.

Sulle carte di cotone, questi istanti di memoria ritrovano matericità, seppur effimera e precaria, e creano una nuova relazione con il presente e lo spazio bianco che li accoglie.

Seguendo un ritmo costante e ordinato queste prime tracce restituiscono la memoria giornaliera del primo momento della pandemia, un tempo sospeso, quasi di attesa: 43 carte per 43 giorni, sono state per l’artista la possibilità di ascoltare e percepire un tempo vissuto e uno spazio ritrovato – in quei giorni la casualità la costringe a Roma, nel suo studio che da qualche anno aveva lasciato per trasferirsi in America.

Diario di un tempo sospeso, 2020 Installazione
43 Emulsion lift on paper
Cm. 22,5×19 cad.

 

I resti di questo tempo, anche se sempre in tracce minime, giungono a farsi forma, distese su altre carte dell’ampiezza di un 75 giri che raccolte insieme compongono tre libri distinti. La materia secondo un nuovo ritmo, scivola in un racconto nel quale a tratti rivela la sua dimensione perduta e, pagina dopo pagina, si sviluppa come una partitura musicale.

È tuttavia nelle carte più grandi, stese nude e libere da telai e cornici sulla pietra del muro, che questi filamenti di tempo ritrovano una presenza fisica più forte, con le quali l’osservatore si fronteggia e inevitabilmente istaura una relazione.

Nuda, spogliata da qualsiasi rivestimento, la materia e l’espressione ritrovano la leggerezza e libertà di azione per re-agire all’immobilità e ripetitività nella quale si è caduti.

Ripartiamo dai margini, dai bisbigli, per recuperare la leggerezza e consapevolezza del nostro essere e la capacità di preservarlo.

Info mostra

  • Beatrice Pediconi | Nude
  • a cura di Cecilia Canziani
  • fino al 27 marzo
  • z2o – galleria Sara Zanin
  •  Via della Vetrina, 21, 00186 Roma
  • info@z2ogalleria.it
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Francesca Campli ha una laurea in Storia e Conservazione del Patrimonio artistico e una specialistica in Arte Contemporanea con una tesi sul rapporto tra disegno e video. La sua predilizione per linguaggi artistici contemporanei abbatte i confini tra le diverse discipline, portando avanti ricerche che si legano ogni volta a precisi territori e situazioni. La passione per la comunicazione e per il continuo confronto si traducono nelle eterogenee attività che pratica, spaziando dal ruolo di critica e curatrice e quello di educatrice e mediatrice d'arte, spinta dal desiderio di avviare sinergie e confrontarsi con pubblici sempre diversi.

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