Luca Giordano. Dalla natura alla pittura. Napoli, Museo di Capodimonte

immagine per luca giordano dalla natura alla pittura: Luca Giordano, Sansone e il leone

Quando visitiamo una mostra importante l’idea che avevamo di un determinato artista muore e se ne forma una nuova. Questa idea, come una nuova era geologica, una nuova stagione, resterà viva fino a che non vi sarà una nuova esperienza visiva che rimetterà in gioco quelle sensazioni impresse nella nostra mente.
E’ questo il caso di Luca Giordano. Dalla Natura alla Pittura (a cura di Stefano Causa e Patrizia Piscitello, da un’idea di Sylvain Bellenger),  al Museo Capodimonte a Napoli,  mostra che ripercorre – per nuclei cronologici e tematici –  le fasi salienti dell’attività del più grande maestro napoletano del Seicento. Pittore dalla produzione sterminata, con monografie che vengono continuamente rimpinguate da aggiunte, nuove attribuzioni e nuove scoperte.

La mostra si apre con una citazione che fa da faro a tutto il percorso:

Luca resuscita l’antico esempio del Veronese, trasfondendolo in un’atmosfera moderna di oro puro, in polvere iridata, e che indusse il disegnatore De Maria a parlare d’una “scuola ereticale, che faceva traviare dal dritto sentiero, con la dannata libertà di coscienza”.
(Ferdinando Bologna)

Questa definizione magistrale del Bologna è la trascrizione verbale dell’essenza della pittura di Giordano. Quella polvere d’oro, brillante e sporca al contempo, ci accompagna per tutto il percorso.

Le prime opere della mostra sono soggetti cruenti. Il primo ambiente ospita i “domatori di Leoni” (fig. 1) e si apre con due importanti confronti: Giovanni Lanfranco e Lorenzo Vaccaro. Emerge immediatamente la volontà di contestualizzare la cultura figurativa del pittore nella Napoli pittorica del Seicento, un approccio conoscitivo in puro stile longhiano/cavalcaselliano.

Il confronto con la posa di Lanfranco è parlante ed è anche evidente che lo stile di Lanfranco, più compatto e disegnato, vada in una direzione piuttosto diversa da quella di Giordano, il cui modo di dipingere – in particolare nel Sansone e il leone del Prado (fig. 2) – è già sfaldato e punta a soluzioni di Barocco europeo, punta a Rubens, a giusta ragione citato spesso nel catalogo quale maestro putativo di Luca Giordano.

L’Ercole di Vaccaro agguanta le fauci della bestia in maniera assolutamente identica a quella di Giordano ed apre un altro tassello importante di questa mostra: il fatto che pittura, scultura e oreficeria fossero diverse facce dello stesso mondo in continua ed osmotica simbiosi.

“Disegni: nelle cucine del pittore”: il corridoio dei disegni ci permette di avere uno sguardo diverso sulla poetica del maestro Napoletano. Nonostante si tratti di studi finiti, non ritroveremo i dettagli di questi disegni ad litteram nelle opere pittoriche, come nel caso di Leonardo.

E’ come se Giordano stesse studiando e dando sfogo al suo essere pittoricamente onnivoro, dimostrandosi capace di disegnare tutto, ricordando la lezione dei Carracci, di Rubens e di Tintoretto. Giordano annotava quanto gli interessava, “non curandosi dei serramenti futuri degli storici dell’arte”.

Segue un passetto con opere del Giordano da “contromanuale”. Stiamo parlando di quadri che nessun conoscitore medio attribuirebbe a Giordano: due “rivisitazioni” di dipinti cinquecenteschi, tra cui spicca una copia (o “un falso” come giustamente viene definito in mostra) da Raffaello, addirittura siglato con le iniziali del grande maestro urbinate (fig. 3). La materia grassa del pittore napoletano smaschera il tondo come copia e ne rivela lo Zeitgeist, lo spirito del tempo.

fig. 3 Luca Giordano, Sacra Famiglia con San Giovanni Battista, Madrid, Museo del Prado

La biografia del nostro pittore è ricca di spostamenti dalla città natale: Firenze, Venezia e (in età matura) la Spagna. Giordano assimilò e studiò di tutto per generare un nuovo linguaggio visivo, il cui punto di partenza non poté che essere Tiziano.

E’ proprio nella seconda fase di Tiziano, meravigliosamente rappresentata al primo piano del Museo di Capodimonte, che possiamo ricercare gli antipodi della “risoluzione Giordanesca”.

Questa curiosità onnivora gli procurò un ventaglio di soluzioni stilistiche molto ampio, che hanno reso questo pittore capace di dipingere in qualsiasi modo volesse, senza essere mai “vittima” della sua stessa bravura, puntando verso direzioni assai personali e riconoscibili, soprattutto a partire dalla metà del secolo.

Nel terzo ambiente, chiamato: “I conti con il caravaggismo e il peso di Ribera”, affiora dai depositi di Capodimonte una vera chicca. Un eccellente restauro ha fatto esplodere questa tela in tutta la sua bellezza. Si tratta del “Buon Samaritano” (fig. 4), che – a crudo – continua a riportare la mia mente alla maniera di Ribera, in particolar modo nel cielo e nell’incarnato del santo, assai vicini ad esempi come il San Sebastiano di San Martino (in mostra).

 

Fig. 4 Luca Giordano, Il Buon Samaritano, Napoli, dai depositi del Museo di Capodimonte

 

A lungo si è pensato a un discepolato di Luca Giordano presso la bottega di Ribera e, seppur ad oggi le cronologie ci impongono di escluderlo, questo dipinto avvalora e sottolinea quanto il nostro pittore sia stato attento ed empatico verso i protagonisti della pittura napoletana del Seicento.

La sala più potente e ricca di enfasi è sicuramente “La definizione di un mito: Giordano nelle chiese di Napoli” (fig. 5), in cui domina, al centro, la statua del San Michele Arcangelo di Vaccaro (fig. 6), capolavoro ad oreficeria del Museo Diocesano, in una posa assai simile al magnifico dipinto di Giordano con il “San Michele Arcangelo che scaccia gli angeli ribelli” per la chiesa dell’Ascensione a Chiaia (presente nella stessa sala, fig. 7).

fig. 5 sala la definizione di un mito, Giordano nelle chiese di Napoli

La similitudine della posa tra statua e tela è avvalorata dal documento secondo cui nel 1689 I “Deputati della Padronanza del glorioso principe Santo Michele Arcangelo” pagano “tanti zuccotti”, regalati a Luca Giordano per aver seguito i lavori del modello in piccolo ed in grande della statua d’argento di San Michele “che si ha da formare”. Il modello della statua era di Lorenzo Vaccaro, l’esecuzione fu affidata a Giovan Domenico Vinaccia.

Il ruolo di Luca Giordano, almeno nella posa della statua del San Michele Arcangelo, realizzato poi da Vinaccia, è quindi comprovato e il confronto tra i due temi assume ancora più valore.

Questo dipinto si collega ad un ideale trittico con i San Michele Arcangelo oggi a Vienna e a Berlino. Altra considerazione, banale ma dovuta: il San Michele Arcangelo che scaccia gli angeli ribelli, eseguito quando Giordano era ventenne, non potremo rivederlo presto così da vicino ed in queste condizioni di illuminazione. Questo capolavoro proviene dalla Chiesa dell’Ascensione a Chiaia ed è solitamente esposto ad un’altezza piuttosto importante.

I dipinti di Giordano circondano la scultura di Vaccaro con potenza e sacralità, una sacralità che potrebbe far tornare alla mente persino la Rothko Chapel a Huston. Unico ospite che ho difficoltà a contestualizzare in questa sala è un dipinto attribuito ad Andrea Vaccaro raffigurante la Madonna del Rosario.

“Non Aperiatur” (che non si apra più) erano le parole sulle lapidi delle fosse comuni dopo il 1656, anno della peste, in cui morirono più di 450.000 persone, nella sola città di Napoli.

Un’altra sala che resta nella memoria del visitatore è “Il trionfo della morte, lo spettacolo della peste”, sia per rispondenze con l’attualità che per la forza dei soggetti. Nelle sale Giordano viene accostato, oltre che ai meravigliosi bozzetti che Mattia Preti esegue per le porte di Napoli come ex voto per essere scampato alla peste, con Domenico Gargiulo, detto Micco Spadaro, figlio di un fabbricante di spade e noto per la copiosa produzione di vedute della città di Napoli. Le piazze e gli slarghi fanno da teatro ad eventi spesso macabri, esecuzioni pubbliche ai tempi di Masaniello e le scene della peste.

Ad una scena di Peste di Micco Spadaro viene posto di fronte il grande quadro di Giordano con San Gennaro che interviene durante la peste (fig. 8).

fig. 8, Luca Giordano, San Gennaro intercede per la peste del 1656, Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte

Da questo confronto emerge come il paesaggio di Micco Spadaro sia assai preciso e topografico, mentre Giordano evoca una Napoli che non desta dubbi quanto a identità, ma che non ha precisi riscontri con la realtà del tempo. Questo rievocare la città senza precisione urbanistica dà ancora più valore al genio inventivo di Giordano che, come un grande regista, evoca qualcosa senza citarla alla lettera.

Altra nota di merito sono le citazioni scelte per ogni sala, decisamente ben calibrate. Tra le più illuminanti, la definizione di Roberto Longhi, che ci fa pensare alla celebre “rapidità” di Luca Giordano (il pittore è da sempre ricordato come Luca “fa presto”, sin da quando lavorava nella bottega del padre), descrivendola come un “continuum di mondo in abbozzo”, quasi senza fine.

Una bellissima mutazione emerge in questa mostra nella sala descritta come la “Metamorfosi del Barocco”. Qui in effetti qualcosa si ricompatta. Questa mutazione è particolarmente esplicita nel “Miracolo di San Nicola” di Santa Brigida. Tela incredibilmente precoce, firmata e datata 1655 (Giordano era poco più che ventenne), i colori non appaiono ancora sfaldati ed elettrici come in molte delle sue tele a venire, ma le vibrazioni giordanesche trovano per un attimo requie in stesure meno inquiete.

Quelle monete nel piatto sono tozze come fette di patate sottili bagnate nell’oro (fig. 9), non ancora iridescenti come il piatto del San Tommaso da Villanova (fig. 10, le cui monete sono ancora più vicine a quelle della Danae di Tiziano), ma ne presagiscono l’intenzione.

Nella sala “Finale di partita” viene ricostruita la cappella ai Girolamini, con la tela principale raffigurante l’incontro tra i Santi Carlo Borromeo e Filippo Neri, firmata e datata al 1704. Trovo particolarmente illuminante la nota della sala: “il primo 700 ha imbrigliato l’ansia sperimentale di Giordano”, imponendo quella che viene splendidamente definita “la camicia pulita”.

Sarebbe stato un sogno vedere a fianco al Sant’Alessio del Purgatorio ad Arco l’Annunciazione di Tiziano Vecellio (fig. 11) scambiata per un dipinto di Luca Giordano già in antico, dal grande Bernanrdo De Dominici), e rievocare uno degli errori più intelligenti della storiografia artistica napoletana.

fig. 11 Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte
Tiziano, Annunciazione,
1557 ca., da Napoli,
San Domenico Maggiore,
olio su tela, cm 281,5 x 193,5

Camminando per la mostra, aleggia lo spirito stilistico di Tiziano continuamente: lo rivediamo nell’angelo del Sant’Alessio (figg. 12 e 13), lo rivediamo nell’angelo dell’Estasi di San Nicola da Tolentino, lo rivediamo nel braccialetto della Storia che scrive gli annali sulle spalle del tempo, che gira attorno al polso della donna esattamente come quello della Danae del primo piano.

Splendida l’idea di chiudere la mostra con una sala di videoproiezioni curate dal bravissimo Stefano Gargiulo, che rievoca gli affreschi del Tesoro a San Martino.

Ben curato e ricco anche il catalogo della mostra, a cui partecipano anche “non specialisti” di grande spessore come Biagio de Giovanni, che scrive un bellissimo saggio intitolato “Il barocco tragico di Giordano”.

Ricco ed antiaccademico, nel senso migliore del termine, il saggio del co-curatore Stefano Causa; colmo di appassionata cura anche il saggio di Alessandra Rullo e Patrizia Piscitello dedicato ad Umberto Bile, grande assente del Museo.

Sul sito del museo esiste anche un video youtube con una visita guidata alla mostra. Un’idea assai utile visto il momento.

Ringrazio Stefano Causa, Alessandra Rullo, Luisa Maradei e Loredana Ianora per avermi aiutato, ognuno e ognuna in modo diverso, nella stesura di questa recensione.

Info mostra

  • Luca Giordano. Dalla Natura alla Pittura
  • a cura di Stefano Causa e Patrizia Piscitello –  da un’idea di Sylvain Bellenger
  • 8 ottobre 2020 – 11 aprile 2021
  • Museo e Real Bosco di Capodimonte mu-cap@beniculturali.it
  • Via Miano, 2, 80131 Napoli
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Riccardo Prencipe, laureato con Ferdinando Bologna all’Università degli Studi di Napoli, ha poi conseguito il Dottorato di Ricerca in Storia dell’arte presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II. Insegna Storia dell'arte presso le scuole superiori. Ha all’attivo diversi saggi e articoli di storia dell’arte, oltre ad una nutrita produzione discografica. Ha già svolto numerose conferenze sui rapporti tra arte e musica all’Università degli Studi di Firenze, all’auditorium di Capodimonte, al teatro Tempio di Modena, alla Biblioteca di Villa Bruno a San Giorgio a Cremano. E' anche compositore e chitarrista, si è diplomato in chitarra presso il conservatorio di Napoli San Pietro a Majella ed ha poi proseguito lo studio dello strumento con il maestro Aniello Desiderio. Dal 2005 fonda e dirige l’ensemble Corde Oblique, la cui musica trae ispirazione del patrimonio storico artistico del sottobosco dell’Italia Meridionale. Ha licenziato otto album ed ha all’attivo decine di concerti in Italia, Europa, Albania ed Cina, oltre a collaborazioni con artisti del calibro di Milo Manara e Franco Fontana.

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