Il museo come scenografia: dai Pink Floyd ai neomelodici

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Molti sono stati i videoclip musicali ambientati nei musei o nei siti d’arte in tempi recenti, e le polemiche in merito non sono mancate. La questione è tutt’altro che semplice, poiché riguarda principalmente tre materie diverse: la storia dell’arte, la regia, e la musica.

Il tutto andrebbe quindi esaminato in modo piuttosto attento, caso per caso, onde evitare di sfociare in prese di posizione aprioristiche, sia da parte dei sostenitori che dei detrattori.

Nel 1972 i Pink Floyd girarono Live at Pompeii, un video in cui suonano dal vivo (ma senza pubblico) negli scavi di Pompei (figg. 1 e 2).

In realtà si tratta di un vero e proprio film/documentario che ha fatto storia e che – tutt’oggi – è considerato un cult. Il regista si chiama Adrian Maben, fu sua questa grande intuizione. Alcune scene vennero girate anche alla Solfatara di Pozzuoli e poi integrate con altre ambientate a Parigi e agli studi Abbey Road di Londra durante le registrazioni del celeberrimo The Dark Side of the Moonma è il grande anfiteatro di Pompei a fare da scenografia principale.

Di recente, gli scavi di Pompei hanno inaugurato una piccola mostra nell’anfiteatro con molto materiale fotografico prodotto durante quelle riprese e dei dietro le quinte del film in questione. Da allora è come se, ascoltando il brano Echoes, una parte della memoria collettiva di tutti i fans della band, venisse ricondotta anche agli scavi di Pompei.

Quando i Pink Floyd composero quella lunga suite (il brano dura circa 23 minuti) non immaginavano minimamente che quelle note si sarebbero legate inesorabilmente alle celebri rovine campane: la canzone non aveva alcuna attinenza con esse nel momento in cui è stata scritta, eppure si è creata un’alchimia perfetta tra quelle atmosfere sonore e gli scavi.

La stampa dell’epoca e gli intellettuali non ebbero da ridire circa l’utilizzo delle rovine come “sfondo scenografico” per quella musica, che – negli anni Settanta – era musica quasi di massa.

Per non parlare del fatto che l’anfiteatro di Pompei è stato negli ultimi anni (prima del Covid) utilizzato come arena per concerti di grandi artisti internazionali (David Gilmour, King Crimson, Elton Jonn, e diversi altri nomi di culto), e stiamo parlando dell’anfiteatro romano più antico del mondo (costruito ben 160 anni prima del Colosseo).

Nel 2014 il cineasta Michelangelo Gelormini gira, nella fondazione Made in Cloister (il chiostro cinquecentesco di Santa Caterina a Formiello a Napoli) il video per All the things, brano composto dal grande David Lynch.

Il videoclip si ispira alla poetica visiva del maestro (stavolta coinvolto in veste di autore musicale). Protagonista è la bellissima e bravissima Chrysta Bell, già attrice nella nuova serie di Twin Peaks, in questo caso impegnata come cantante/attrice (fig. 3).

Partiamo da una considerazione: volendo essere estremamente rigidi e boriosi potremmo dire che le opere d’arte e i siti archeologici non sono state concepite per fare da cornice a videoclip musicali.

Eppure, sia nel caso dei Pink Floyd a Pompei, che nel caso di David Lynch a Napoli, non vi è stato alcun detrattore. Nessun intellettuale, o conoscitore, o opinionista di rilievo si è sentito offeso dal fatto che un video musicale di quel calibro fosse stato girato in un sito Unesco, o nel chiostro di una chiesa.

Non dimentichiamo che nel video di Lynch appare anche la protagonista in vesti molto appariscenti nel chiostro di una chiesa (fig. 4), eppure il tutto ha un sapore visivo di raffinato gusto estetico, in pieno accordo con la poetica fatiscente ed intensa che è comune sia a quel luogo che all’estetica cinematografica lynchiana. Risultato: critici, giornalisti, pensatori ad applaudire, e in silenzio.

Questo è già un fattore di partenza che può sembrare banale, ma non è da sottovalutare: se nessun professionista dell’immagine e nessun conoscitore di musica o di cinema ha da ridire su certe operazioni è anche perché, evidentemente, il risultato che ne è venuto fuori, la simbiosi tra la musica proposta e il luogo d’arte, è stata giudicata di buon gusto all’unanimità, valorizzante per il sito scelto, al di là di ogni posizione o spiegazione logica.

Segno che quando si allineano i pianeti in un risultato di coerenza stilistica e valorizzazione reciproca (per il luogo e per l’artista) nessuno storce il naso.

Il problema non è tanto che i musei vengano adoperati per videoclip, concerti, o servizi fotografici. Queste operazioni diventano problematiche quando l’abbinamento con la musica scelta, con le immagini del video, con il pensiero che musica e immagini incarnano, stride potentemente con il resto.

Un Museo, un regista e un cantante, messi insieme, andrebbero intesi come una collaborazione tra artisti. Tra di essi dovrebbe esserci un attestato di stima reciproco, che li spinge ad avvicinarsi, a lavorare insieme.

L’anomalia sorge quando si avverte invece una palese disarmonia tra il luogo e il prodotto finale. A volte il risultato può essere Kitsch e imbarazzante. Certe sonorità e certe immagini possono essere in armonia, o stridere sulle opere come il rumore delle unghie sulla lavagna.

Questo avviene quando l’unico motivo a monte è di carattere commerciale/economico, e si accetta senza valutare se il prodotto che ne verrà fuori diverrà – nel tempo – un’immagine di valore, o una svendita del luogo interessato.

Vediamo altri esempi, in ordine cronologico:

Fig. 5 Fabri Fibra nella Reggia della Venaria

Nel 2012 il singolo Pronti, partenza, via! del rapper Fabri Fibra (fig. 5) viene girato tra la Reggia della Venaria e il Museo Egizio di Torino. Il motivo per cui questo testo e questa musica debbano avere come cornice certi luoghi risulta veramente oscuro.

Non vi è alcuna attinenza tra questo testo, queste sonorità e questo video, anzi, l’estraneità è palese.

Oltretutto La Reggia viene mortificata con effetti in stile video da matrimonio anni ’90 e vi è uno scontro imbarazzante tra queste sonorità e quelle opere.

Se al posto della Reggia o del Museo Egizio ci fosse stata una foresta pluviale, una base spaziale, o una metropolis, il risultato sarebbe stato identico.

Nel 2018 il duo The Carters (composto da Beyonce e suo marito) gira nel Museo del Louvre un videoclip musicale dal titolo (censurato) Apes**t  (fig. 6). Il video viene affidato ad un regista americanizzato di nome Riky Saiz, non particolarmente celebre.

Questo clip rappresenta un’operazione che mette in crisi gli schemi: se da un lato è innegabile un forte contrasto tra lo stile musicale, i protagonisti, il testo, e il museo, dall’altro non possiamo non notare un forte ed originale dialogo – spiazzante – tra musica, video e protagonisti, che – senza fronzoli – iniziano col dare le spalle alla Monnalisa, in atteggiamento di sfida.

Questo videoclip fa vedere il museo in modo nuovo, diverso dal solito, non si ha l’impressione dello stupro di un luogo, o di un luogo la cui immagine ne esca come una cornice falsata e passiva ad un video di pessimo gusto.

Tutt’altro, il video presenta giocate di forte originalità e impatto visivo, mi riferisco in primis alla scena con i due modelli seduti di profilo, che si spalleggiano a vicenda, al di sotto della Madame Recamier di Jaques Louis David (fig. 7). La fotografia è meravigliosa, e perfetta è la suspense data dalla sospensione del suono in quella scena.

Fig. 8, Mostra Valentino a Roma, 45 years of Style

Una sensazione simile, di piacevole straniamento da futuro remoto, la ebbi alla mostra sul celebre stilista Valentino a Roma, 45 years of Style all’Ara Pacis, nel 2007 (fig. 8).

Anche quello fu un accostamento sicuramente spiazzante, ma il tutto era armonizzato in modo originale e valorizzante, sia per l’antico che per il moderno.

L’istallazione in questione esaltava, con uno spirito contemporaneo, la funzione rituale/sacrale dell’opera che la ospitava.

Ma torniamo al video di Beyonce e consorte. A proposito della scena iniziale, con i due davanti alla Gioconda: essi danno le spalle al quadro, ma non lo coprono, il quadro resta al centro e in bella vista (fig. 6).

Veniamo alle foto tanto discusse dell’influencer Chiara Ferragni al Museo degli Uffizi.

Nelle foto che hanno fatto infuriare in molti, la Ferragni si fa fotografare davanti ai quadri (fig. 9), davanti alla Venere di Botticelli (fig. 10), che diventa qualcosa di secondario, una Venere coperta dall’immagine della popolare imprenditrice e socialite,  l’opera diventa quasi uno scenario sbiadito, con il riflesso della luce che la offusca; un’icona da sfondo, una musica di sottofondo.

D’altronde, anche questo atteggiamento è in perfetta linea con i nostri tempi, in cui ogni individuo, seppure al cospetto di certe opere d’arte, si sente il vero protagonista sul palcoscenico dei social newtork.

Lo stile parla sempre, in modo chiaro e diretto.

Facciamo un passo indietro nel tempo: perché nessuno ebbe da ridire sulle foto di Sofia Loren al Louvre degli anni ‘60?
Forse in primis perché la Loren, a differenza della Ferragni, non posava davanti alla Gioconda, ma di lato rispetto ad essa? (fig. 11) Da quelle foto si percepisce chiaramente una posizione di rispetto e di considerazione nei confronti del dipinto (fig. 12). Esattamente come la Loren, nemmeno Beyonce e Jay-Z coprono la Monnalisa.

Prendiamo adesso un altro esempio riuscito: le foto delle modelle di Dolce e Gabbana nella chiesa di San Paolo Maggiore a Napoli. Quell’accostamento di barocco su barocco è stato perfetto.

Forse perché quegli abiti con i piviali e le mitre sono stati pensati per quel luogo ed hanno anch’essi generato uno shock visivo positivo, un iperuranio barocco tra antico e moderno. I vestiti delle modelle dialogano con i marmi commessi di Dioniso Lazzari nella Cappella Firrao (fig. 13) in un tripudio di riflessi.

Ecco che in questo servizio fotografico non ci si è recati semplicemente in un luogo di prestigio per status. La scelta è stata entrare in empatia con il luogo stesso, studiare costumi e vestiti che, nella loro eccentricità, fossero una risposta contemporanea allo sfarzo del Seicento napoletano (fig. 14).

Ed è a quel punto che l’operazione diventa non solo dignitosa e rispettabile, ma una nuova forma d’arte, che riceve valore e ne dona a sua volta.

Nel 2020 il trapper Mahmood pubblica il video del brano Dorado, girato in parte nella Sala dei Re del Museo Egizio di Torino (fig. 15).

Fig. 15 Mahmood, Dorado

Il cantante balla a torso nudo e con fare sfrontato, osannando il denaro “sogno un ferrari dorado”, ribadendolo: “siamo pieni d’oro, tasche piene di euro”.

Nonostante la musica e il testo siano di gusto più che dubbio, il video di Mamhood non ha destato polemiche rilevanti, forse anche per il fatto che in quelle immagini il Museo viene dissimulato.

Il video rievoca in modo semplice e grossolano i cliché del mondo egiziano: piramidi, sfingi etc. Non è palese che si tratti del museo Egizio, o meglio, è evidente per chi conosce il museo, ma per l’osservatore medio è come se questo trapper avesse voluto rievocare elementi sparsi che si riferiscono alla sua patria.

Il risultato è un pezzo e un video per teenager con sfingi e piramidi, il museo ci sta, ma paradossalmente c’entra poco.

immagine per museo come scenografia
Fig. 16 Andrea Sannino a Capodimonte

Nel 2021 un cantante di nome Andrea Sannino gira un videoclip nel Museo di Capodimonte a Napoli (fig.16).

Il motivo per cui Fabri Fibra vada a portare la sua controcultura (presunta o vera che sia) nella Venaria è oscuro esattamente come il motivo per cui un manierista di Pino Daniele che imita in malo modo a distanza di oltre 20 anni (ovvero: Sannino), debba girare un videoclip di una banale canzone d’amore con il Paolo III di Tiziano alle spalle, o corteggiando una ragazza che finge di ammirare la Resurrezione della Vergine di Fra Bartolomeo, o ancora con la Flagellazione di Caravaggio sullo sfondo.

I dettagli delle opere non dialogano con il brano, c’è un forte odore di posticcio, di forzato, si va a tentoni. Oltretutto, a differenza del video di Mamhood, il museo è tutt’altro che dissimulato, ma perfettamente riconoscibile.

Un noto Storico dell’Arte accreditato come Tomaso Montanari (che si era schierato contro le foto della Ferragni agli Uffizi) attacca pesantemente anche questa operazione.

Potremmo forse affermare serenamente che girare nel bosco, o sul lungo mare, forse, sarebbe stata la scelta più naturale?
Diceva Thom Yorke: “everything in its right place”, ma qui direi che siamo proprio “in the wrong place”.

Per concludere: quando un museo o un luogo d’arte viene utilizzato come scenografia il rischio del Kitsch e di essere fuori luogo purtroppo è dietro l’angolo, ma non c’è modo di calcolarlo. C’è sempre qualcosa di imponderabile in questo tipo di operazioni, un quid che i direttori dei musei non possono sempre prevedere o afferrare con certezza.

Trincerarsi e cercare regole matematiche, o assiomi, purtroppo è impossibile. Se non permettessimo a priori di girare videoclip nei musei ci perderemmo un Live at Pompeii del futuro, e sarebbe un peccato. Ma sarebbe anche importante evitare gli scivoloni vistosi.

Ci potremmo magari augurare che riconoscere pubblicamente le cadute di stile e i risultati scadenti sarebbe un gesto di grande onestà intellettuale.

Fare ammissioni sulle necessità dettate da un momento storico di profonda crisi anche economica sarebbe già onesto; Affermare di agire “in nome della cultura”, o “dell’apertura dei musei a tutti”, risulta invece come un’affermazione di facciata.

Le percentuali vanno e vengono, mentre i video e i servizi fotografici (brutti, Kitsch, belli, o importanti) resteranno per sempre, e nel tempo costituiranno un importante tassello (di merito o demerito, a seconda dei singoli casi) per la storia di quei luoghi.

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Riccardo Prencipe, laureato con Ferdinando Bologna all’Università degli Studi di Napoli, ha poi conseguito il Dottorato di Ricerca in Storia dell’arte presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II. Insegna Storia dell'arte presso le scuole superiori. Ha all’attivo diversi saggi e articoli di storia dell’arte, oltre ad una nutrita produzione discografica. Ha già svolto numerose conferenze sui rapporti tra arte e musica all’Università degli Studi di Firenze, all’auditorium di Capodimonte, al teatro Tempio di Modena, alla Biblioteca di Villa Bruno a San Giorgio a Cremano. E' anche compositore e chitarrista, si è diplomato in chitarra presso il conservatorio di Napoli San Pietro a Majella ed ha poi proseguito lo studio dello strumento con il maestro Aniello Desiderio. Dal 2005 fonda e dirige l’ensemble Corde Oblique, la cui musica trae ispirazione del patrimonio storico artistico del sottobosco dell’Italia Meridionale. Ha licenziato otto album ed ha all’attivo decine di concerti in Italia, Europa, Albania ed Cina, oltre a collaborazioni con artisti del calibro di Milo Manara e Franco Fontana.

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