Irene Dionisio, la giovane regista e artista si racconta a un anno dal lockdown. L’intervista

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Irene Dionisio

Ad un anno dal primo lockdown si presenta l’intervista alla brillante cineasta Irene Dionisio (Torino, 1986). Incertezza, insicurezza, indeterminatezza della cultura in un anno di sostanziale chiusura? A questo macro-quesito, la giovane regista, sceneggiatrice e soggettista, nonché artista, racconta la propria testimonianza di “creatività alternativa” svolta in questi duri mesi di lavoro, offrendocene acute riflessioni.

Irene, quale pensi che sia la nuova metafora del cinema nell’era post-Covid?  E come reputi siano mutati i rituals nei comportamenti di ascolto e di visione nei fruitori in questi lunghi mesi di lockdown?

In questi giorni, in cui l’immagine sul mondo ci sembra negata, e ci interroghiamo mestamente sul ritorno alla normalità del nostro Cinema e all’impossibilità di produrre immagini se non completamente ripiegate su se stesse, nell’intimità forzata delle nostre case, tra le priorità c’è sicuramente quella di domandarsi da dove ripartire quando il mondo potrà nuovamente divenire oggetto – e non solo di consumo – del nostro sguardo.

Secondo il filosofo Pavel Florenskij, spesso citato da Tarkovskij, l’icona ha una precisa istanza:
I due mondi, il visibile e l’invisibile, sono in contatto. Tuttavia la differenza fra loro è così grande che non può nascere il problema del confine che li mette in contatto, che li distingue ma altresì li unisce”.
Le immagini per Florenskij sono finestre aperte sul mondo metafisico, soglie, portali verso l’intangibile.

Tutti, ora, agogniamo il ritorno alla collettività, il calore della comunità, la sensualità della produzione artistica, il calore, il contatto dell’immagine con se stessi e con la natura. Ma se “le immagini sono specchio del nostro inconscio collettivo” oggi, in questo solipsismo forzato, dobbiamo ammettere l’esaurimento della loro capacità di divenire portali verso l’intangibile e da qui ripartire. Andare oltre lo schermo, tornare alla vita – senza chiamarla “normalità” – e da lì evitare le insidie della formattazione.

Fuori dal tempo della rappresentazione abbiamo il tempo, luminoso, per riflettere.

Nelle ricerche condotte per differenti giornali – La Stampa e Doppiozero – ho raccolto moltissime testimonianze che riguardano il complesso quadro che si sta delineando di fronte ai nostri occhi. Grazie a molteplici, ma strutturalmente non esaustive, voci chiamate a raccontare l’attuale stato delle cose della filiera cinematografica italiana emergono molteplici piani del discorso che richiederanno una necessaria e virtuosa concertazione governativa a partire dalle singole istanze delle associazioni di categoria.

Se sul piano economico le esigenze di ripartenza del cinema come industria, secondo le feroci regole della domanda e dell’offerta, sono urgenti e prevedono soluzioni immediate – se pur transitorie, in perfezionamento, forse effimere – e se le tecnologie della visione si adeguano alle richieste cangianti del mercato con abilità mimetica, la radice emotiva riscontrabile nel discorso degli autori, in quella dei curatori dei festival e nel grido d’aiuto di piccoli e medi esercenti prende avvio dalle parole condivisione collettiva che rimangono il comune denominatore delle testimonianze raccolte.

Starà a noi, come comunità cinematografica, comprendere, rimodulare e rendere onore a questo valore intrinseco e fondante, nel suo etimo originario e non alienato.

Come è nata l’idea del concept per la rassegna Pestifera, svoltasi nello scorso autunno e realizzato dal Castello di Rivoli – Museo d’arte contemporanea in collaborazione con Distretto Cinema?

Con la direttrice del Rivoli Carolyn Christov-Bakargiev vi è un rapporto di reciproca stima e quando da parte sua c’è stato il desiderio di costruire un’arena estiva sui temi della pandemia, per me è stato un… invito a nozze. A mio avviso l’arena è stato un ottimo momento per ragionare sullo sfruttamento sistematico del pianeta che si è trasformato, attraverso una prevista e prevedibile zoonosi, nel flagello del XXI secolo.

L’umanità, specie in cammino, dopo una lunga e forzata cattività, è stata messa di fronte ad una banale certezza, quella della propria finitezza. La rassegna si è domandata di fronte “all’assurdità”, scriverebbe Albert Camus, “della propria esistenza, come reagire per non cedere alla follia?”.

Ecco, per noi la rappresentazione cinematografica, come susseguirsi di immagini-soglia dell’inconscio collettivo globale, ha offerto una possibile catarsi, epoché e, forse, una ripresa di un tanto agognato respiro collettivo.

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Irene Dionisio
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Storico dell’arte, curatore, saggista e docente, Gabriele Romeo si è laureato in Scienze e Tecnologie dell’Arte all’Universita di Palermo e ha conseguito la laurea specialistica in Storia dell’Arte Contemporanea all’Università di Bologna. Ha preso parte al corso di alta formazione ICON, per curatori, presso la Fondazione Fotografia di Modena. Ha curato il Padiglione dello Stato Plurinazionale della Bolivia alla 57ª Biennale Internazionale d’Arte di Venezia. Insegna Storia dell’arte contemporanea, Fenomenologia delle arti contemporanee, Storia delle arti applicate ed ha tenuto il corso di Linguaggi Multimediali all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino. Autore per la casa editrice Skira, con una prefazione di Mark Gisbourne, del testo da lui scritto ed illustrato #HASHTAGART. Ha curato mostre in Italia e all’estero dedicate ad artisti internazionali ed emergenti, collaborando a Venezia con la Fondazione Bevilacqua La Masa. Membro di AICA International, Open Section (International Association of Art Critics).

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