Papa Francesco e Arnold Hauser: il noi nella società. Citando Michelangelo e Keith Haring

“Non è degna l’alma, che n’attende
Eterna vita, in cui si posa e quieta,
Per arricchir dell’unica moneta
Che’l  ciel ne stampa, e qui natura spende.”
Michelangelo Buonarroti

Questa settimana, abbiamo assistito dopo mesi di cronaca dedicata all’opinione diffusa della pandemia alla storica intervista rilasciata a Papa Francesco.

L’ho guardata con interesse per comprendere la posizione del pensiero del pontefice. Ad un certo punto sento pronunciare dalle sue labbra, ricorrenti nel suo intervento, tre semplici parole: “scarto”, “unità”, “noi”.

Davanti ad una logica sociale, del nostro tempo fustigato dall’intemperie dei contrasti e dei dissensi, ho accolto con profonda serenità l’analisi che il vescovo di Roma pronunciava utilizzandone il gergo di un uomo tra gli uomini.

Francesco, il pastore della secolare Chiesa Cattolica si è esposto pubblicamente nei media televisivi per ristabilire un’equilibrata pace tra la speranza e soprattutto analizzando quelle carenze che la strumentalizzazione mediatica di forme individualiste manipolano sulle nostre coscienze.

Ora, in qualità di studioso e di membro dell’International Association of Art Critics (Open Section), ho pensato un paio di ore prima di sentimi in dovere di poter ristabilire la nostra utilità con la società di artisti e non solo, cercando di esplorare le parole pensanti di Francesco Bergoglio e trovandone il giusto collegamento con le teorie espresse nel celebre “Storia sociale dell’arte”, 1964 (1951) dallo storico e critico d’arte Arnold Hauser (Temesvár, 8 maggio 1892 – Budapest, 28 gennaio 1978).

“L’opera d’arte infatti è stata paragonata a una finestra che permette uno sguardo sul mondo (…). Si potrebbe osservare l’immagine al di là della finestra senza rendersi conto del tipo di finestra , della struttura e del colore del vetro. Secondo questa analogia l’opera d’arte appare come un semplice veicolo dell’esperienza, una lastra di vetro trasparente, una lente che resta inosservata e che ha importanza solo come mezzo per raggiungere un dato fine”.

Pensiero sull’arte e sulla cultura etica che mi appaga pensarli come un qualcosa di auspicabile per un “risultato collettivo” verso le nostre azioni, così da poter ragionare sulle probabilità di ricostituire un mondo più equo, con una lente di ingrandimento che riuscisse a guardare dai suoi stessi errori per non commetterli una seconda volta, indipendentemente dai ceti sociali e dalle strutture che lo compongono.

L’arte di oggi ha un’incidenza immediata anche sulle diverse modalità di raccontare la cronaca artistica, non sempre riuscendo a parlare di un “noi plurale”, privilegiandone in più occasioni scelte “individualiste e narcisiste” che non raccontano e narrano con esattezza, della “situazione strutturale del momento”, non assumono possibilità di creare una storia collettiva e gli artisti si schermano creando una storia artistica parallela fatta di “immagini indirette glamor”, spesso scaricate da internet (cit. Fonctuberta) “scarti di situazioni prelevate precipitosamente” con messaggi bypassati ed esauribili in un lasso di tempo breve e circoscritto.

Se per dare speranza all’unione del Noi, potremmo parlare all’infinito delle opere che possiedono nelle loro sovrastrutture armoniche una semantica collettiva che si interfaccia sempre con il prossimo: nella storia dell’arte a noi remota potremmo ascoltare, ad esempio, Michelangelo Buonarroti (1475-1564), oltre alle già note forme di scultura e di pittura, si impegnò assiduamente nella stesura di versi poetici, le cosiddette “Rime” edite per la prima volta nel 1623, nell’edizione recante il titolo “Michelangelo il Giovane”. Versi di solitudine, di amore e desìo, che ritornano a scrutare l’anima inquieta dell’artista verso un’idealizzazione del “Noi”, ed estendendo tale concetto alla contemplazione  di una “divina bellezza”.

Nel caso di Keith Haring (1958-1990), credo opportuno ricordarlo con l’opera “The Wall”  (1986) eseguita a Berlino. Un murales, emblema della Street Art, diverrà da subito vessillo del pluralismo delle coscienze provenienti da ogni parte del Pianeta, così virale da indurre ad instaurare un dibattito democratico per le comunità, per le differenti unità dell’Europa, per la fratellanza dei generi dell’Occidente, per la riunificazione della Germania, abbattendone ogni barriera di divisione.

Per l’analisi che mi sono prefissato di esporre in questo in questo mio breve intervento considero, infatti, questi due artisti molto vicini, anche se cronologicamente agli antipodi del tempo, potremmo interpretarli, come  condottieri di una luce che varca l’accoglienza del prossimo verso  l’ospitalità del gesto. Essi furono capaci di leggere all’interno delle sovrastrutture sociali nelle quali vissero, e traslitterarono in “arti visive”, ognuno con suo metodo, le intemperie fenomenologiche e temporali nelle quali si imbatterono nelle rispettive epoche.

Mentre il mondo li guardava, è così che, tra alti e bassi delle proprie pulsioni e solitudini, dal Sacco di Roma nel 1527 con i Lanzichenecchi, alle dure battaglie degli anni 80 contro AIDS, i nostri due artisti trovarono l’esigenza di comunicare tra la gente con armoniosa serenità il concetto di “riconciliazione con il creato” grazie ad una “libera confessione” con lo “spirito”.

Per dare pregnanza e solidità all’immagine occorre che l’enunciante possa esserne realmente immerso nella sequenza della composizione, mentre il critico, così come anche il curatore, non per ultimo il gallerista, dovrebbero ergersi ad arbitri neutrali per pesare i dati dell’estetica funzionale per tutto ciò che compete l’allargamento sensibile del campo interpretativo dei fenomeni di settore (geografia, agricoltura, politica, regione, filosofia, medicina, legge, letteratura, economia, musica, industria, tecnologia, scienza, lavoro), così da garantirne unità alla funzione sociale del prodotto artistico nella nostra era inquieta.

L’arte in questo modo potrebbe essere la squadra del Noi, poiché la sua costruzione non sarebbe altro che la somma di un “ascolto unitario” nei confronti di saperi e competenze trasversali basate sulla relatività sovrastrutturali di artisti ed intellettuali che oggi vivono tra la gente.

Il mondo dell’arte, oggi, necessita di “armoniosa riconciliazione” per poter ambire a riformularne i codici semantici del nostro presente.

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Storico dell’arte, curatore, saggista e docente, Gabriele Romeo si è laureato in Scienze e Tecnologie dell’Arte all’Universita di Palermo e ha conseguito la laurea specialistica in Storia dell’Arte Contemporanea all’Università di Bologna. Ha preso parte al corso di alta formazione ICON, per curatori, presso la Fondazione Fotografia di Modena. Ha curato il Padiglione dello Stato Plurinazionale della Bolivia alla 57ª Biennale Internazionale d’Arte di Venezia. Insegna Storia dell’arte contemporanea, Fenomenologia delle arti contemporanee, Storia delle arti applicate ed ha tenuto il corso di Linguaggi Multimediali all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino. Autore per la casa editrice Skira, con una prefazione di Mark Gisbourne, del testo da lui scritto ed illustrato #HASHTAGART. Ha curato mostre in Italia e all’estero dedicate ad artisti internazionali ed emergenti, collaborando a Venezia con la Fondazione Bevilacqua La Masa. Membro di AICA International, Open Section (International Association of Art Critics).

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