Stefano Canto da Materia con Carie. Una foresta di cemento come bellezza e monito

immagine per Stefano Canto, Carie. Ph. Daniela Trincia

E’ stata una doppia inaugurazione, quella del 13 febbraio: del nuovo spazio della Galleria che ha spostato la propria sede da via Tiburtina, nel cuore del quartiere capitolino di San Lorenzo (peccato che ogni informazione del sito web sia solo in lingua inglese!), e della personale di Stefano Canto (Roma, 1974).  Carie – così il titolo della mostra – riunisce il recente corpus di lavori dell’artista romano e, tra i vari stop-and-go della pandemia, potrà essere ammirato fino al 30 aprile.

I lavori disseminati nei caratterizzati ambienti della galleria, sono l’espressione di un’attenta ricerca che Stefano Canto ha avviato a partire dal 2009.

Mantenendo la costante dell’utilizzo del cemento, nei lavori esposti fonde due elementi profondamente antinomici, come il legno, o meglio, cortecce e tronchi di alberi, e, come detto, il cemento. La barra del timone è affidata al titolo stesso, capace di fornire le principali coordinate dell’esposizione: il termine botanico “carie” indica sia l’alterazione o la decomposizione dei tessuti vegetali, dovuta all’azione di parassiti fungini, che i parassiti stessi.

Anziché “l’uomo che piantava gli alberi”, Stefano Canto è “l’uomo che ripara gli alberi”, ma invece di ripararli con l’oro (come con la raffinata pratica giapponese kintsugi), li ripara con i materiali e con le pratiche a lui più vicine e consone (non dimentichiamo la sua formazione di architetto): il cemento modellato come l’armatura portante, in generale degli edifici, in questo caso dello scheletro di alberi.

Che, a causa dell’inquinamento, sono attaccati dalle carie e svuotati della loro anima. E’ in questo vuoto, in quest’assenza, che si pone la cura e l’aver cura di Stefano Canto. Tronchi che diventano così preziosi, anche per l’unicità dell’intervento riparatore.

Un riconsegnare nuova vita a qualcosa che l’uomo antropocene, sta distrattamente, lentamente e inesorabilmente, distruggendo. Quella natura ormai sempre meno naturale, sempre più manipolata, mediante il suo gesto artistico è rigenerata.

Così, tronchi di albero o pezzi di corteccia, decomposti dai parassiti, trovati lungo le strade della città, sono raccolti dall’artista per essere rivificato, legando l’elemento arboreo consunto ad innesti cementizi, che si incuneano e si inseriscono nelle pieghe svuotate di quei tronchi e rami ormai deperiti. Non è il calco o il rintracciare l’essenza del legno, come nella pratica di Giuseppe Penone, ma è una sorta di risanamento delle ferite per mezzo delle raffinate protesi.

Entrando nella galleria, si viene pervasi dalla sensazione di addentrarsi all’interno di un’incantata foresta di pietra, composta da elementi che paiono essere dei preziosi resti archeologici riportati in vita con l’attento intervento di un cresciuto Enoch O’Connor.

Una foresta, quella raggruppata da Stefano Canto, che si integra perfettamente con lo spazio di Matèria in un continuo scambio dialogico tra architettura e scultura.

Un albero, posto per orizzontale, dove nella parte superiore è ancora rintracciabile il verde del muschio, è riempito nella parte inferiore col cemento che, al contempo, si espande fino a formare una sorta di piedistallo su cui l’albero stesso delicatamente si adagia.

Altri due tronchi, ben più grandi, sono adagiati a terra, scomposti come tanti rocchi di colonna. Infine, altre sezioni di tronchi sono variamente riempite col cemento che prende differenti forme architettoniche.

Una foresta, quella creata dall’artista, che però può anche significare una natura che ormai, per mano dell’uomo sta perdendo tutta quella che era la sua naturalità, un mondo ormai finto e pietrificato, un destino di distruzione.

E’ quindi anche un monito: iniziare veramente a far qualcosa, per non ritrovarci in un mondo irrimediabilmente apocalittico. 

Info mostra

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Daniela Trincia nasce e vive a Roma. Dopo gli studi in storia dell’arte medievale si lascia conquistare dall’arte contemporanea. Cura mostre e collabora con alcune gallerie d’arte. Scrive, online e offline, su delle riviste di arte contemporanea e, dal 2011, collabora con "art a part of cult(ure)". Ama raccontare le periferie romane in bianco e nero, preferibilmente in 35mm.

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