Antonietta Raphaël. Attraverso lo specchio. Con intervista alle curatrici

La mostra Antonietta Raphaël. Attraverso lo specchio, presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, fortemente voluto dalla figlia Giulia Mafai, scomparsa lo scorso settembre, racconta la biografia di una donna cosmopolita per indole, benché in circostanze tragiche fu costretta più volte a viaggiare per sfuggire alle persecuzioni antisemite.

La prima, nel 1905, a soli dieci anni, con la madre, scappò a causa dei pogrom da Kovno – lo shtetl in Lituania dove era nata – per approdare a Londra, dove, in un ambiente del tutto diverso, studiò musica diplomandosi in pianoforte alla Royal Academy; molti anni dopo, a seguito della promulgazione delle leggi razziste italiane del 1938, di nuovo in fuga, si rifugiò con le tre figlie Miriam, Simona e Giulia, dapprima a Forte dei Marmi, successivamente, con le bambine, si nascose per qualche anno a Genova, ospite dei collezionisti Emilio Jesi e Alberto Della Ragione.

All’yiddish appreso nel suo villaggio natale si aggiunse la conoscenza di altre lingue, acquisite nei suoi soggiorni nelle capitali europee, con Roma che, a partire dagli anni ’20, segnò la permanenza stabile dell’artista, soprattutto dopo l’incontro con Mario Mafai e la nascita delle loro figlie.

Il percorso creativo di Antonietta Raphaël si contraddistingue per la scelta di due linguaggi distinti, quello della pittura e quello della scultura, in entrambi si possono notare però delle libere digressioni rispetto ai canoni vigenti: nei suoi dipinti lo spazio o la sua resa prospettica è poco o per nulla rilevante, spesso i soggetti sono collocati in una dimensione onirica, non soltanto perché il sogno/incubo è frequente nella poetica dell’artista, ma anche nel ritratto, nelle scene di argomento religioso, o in quelle che hanno come protagoniste le figure femminili, il colore si appropria sempre di un ruolo predominante.

Il colore per costruire, per evocare, per redigere una scrittura narrativa: la tavolozza di Raphaël è densa di memorie, è carica di atmosfere che delineano la sua identità, diventa corposa quando intende fissare una curiosità soddisfatta, è spontanea come il gesto stesso delle sue pennellate, che si intrecciano l’una sull’altra per conferire movimento all’intera opera.

Nella scultura, che abbraccia a partire dagli anni ’30, quell’esuberanza, liberata in pittura sul piano cromatico, si trasforma nella ricerca di una dimensione plastica più rigorosa, sempre distante da ogni accademismo, dove sono sempre i temi femminili e biblici ad avere il sopravvento e dove lo spazio persiste nel sottostare ai voleri dell’artista.

Anche nella tridimensionalità, Raphaël non si sottrae dal conferire intensità alle figure: ai movimenti vivaci e svincolati delle tele contrappone gesti raggelati o sguardi penetranti e assorti, a meno che questi ultimi non siano superflui e quindi spariscano, in un superamento aprioristico di ogni vago classicismo, provvedendo lei stessa a privare la figura di ciò che non è essenziale, come nel Re David che piange la morte di Assalonne, opera che l’artista ha realizzato senza testa, lasciando unicamente a quella mano il peso di esprimere la suprema disperazione del sovrano per la morte del figlio. Rimuovere alcune parti del corpo dalle sculture era un intervento talora necessario per l’artista, lo ritroveremo anche in altre opere.

Se si volesse individuare un denominatore comune nelle opere di Antonietta Raphaël, questo potrebbe essere il perpetuarsi di un ricordo, quello delle radici ebraiche e del potentissimo significato che ha la maternità in quel contesto.

Raphaël fa rivivere in quei colori, in quegli oggetti sacri o d’affezione disseminati nei suoi quadri, in quelle fughe dolorose nelle sue sculture, il fascino di una cultura ricca e antichissima e le tragedie che ne hanno costellato la storia millenaria.

Quella disciplina altamente spirituale che ricevette in un lontano villaggio lituano è rimasta profondamente in lei, e, pur declinandola con specificità del tutto personali, mantenendo uno spirito prevalentemente laico, lei, yiddish mame sui generis, attraverso le proprie opere, ha fortemente voluto consegnare alle figlie e al mondo l’originalità dell’approccio curioso, vivace e al tempo stesso mistico che ha caratterizzato la sua vita d’artista.

Abbiamo intervistato per l’occasione le due curatrici della mostra, Giorgia Calò e Alessandra Troncone.

Nel corso della presentazione della mostra, si è voluto rendere omaggio alla figlia di Antonietta Raphaël, Giulia Mafai, che teneva molto a questo progetto, al quale aveva lavorato fin tanto che le è stato possibile.

Giorgia, ci vuole raccontare il vostro incontro, o un ricordo che le sta particolarmente a cuore?

G. C. Ho conosciuto Giulia nel 2015, grazie alla nostra amica comune Alberta Campitelli. Allora ero assessore alla cultura della Comunità Ebraica di Roma e Giulia sentiva forte il desiderio, quasi una necessità, di ritornare alle sue origini, alla tradizione ebraica che aveva segnato il percorso non solo di vita, ma anche artistico, della madre.

Da allora ci siamo sentite quasi ogni giorno ed è nata tra noi una grande amicizia. Giulia era un vulcano, il suo entusiasmo era mosso da un amore profondo nei confronti dei genitori a cui sentiva di dovere ancora molto. Quando con Alessandra abbiamo iniziato a ragionare sulla mostra, Giulia è stata per noi un faro.

I suoi aneddoti ci hanno guidato lungo un percorso storico affascinante dove il percorso artistico e quello biografico sono imprescindibili l’uno dall’altro. Antonietta come sappiamo ha incarnato il punto di congiunzione tra la cultura orientale dell’est Europa di fine Ottocento con quella avanguardista, occidentale di inizio secolo. Quasi ogni telefonata di Giulia finiva sempre con la frase:

“Giorgia cara sono una visionaria, ho ripreso da mamma!”.

Un’affermazione che rimarrà scolpita nella mia mente perché con la sua ironia mi ha insegnato che senza visione non esiste alcun tipo di creatività, che sia un dipinto, una scultura o un progetto di mostra.

Il percorso espositivo è ricco di opere significative che tracciano una biografia esaustiva dell’artista, ne emerge un ritratto che meriterebbe una sceneggiatura; Alessandra, quale aspetto della vita di Antonietta Raphaël la affascina di più e quale opera in particolare le sembra in merito più rappresentativa?

A. T. È impossibile non rimanere affascinate dalla vita di Antonietta Raphaël. Chiunque abbia parlato o scritto di lei, non ha mai mancato di sottolineare la sua straordinarietà, in tutto quello che faceva. Della sua biografia colpisce la determinazione con cui ha sempre portato avanti la sua pratica artistica, in alcuni casi mettendola davanti agli stessi obblighi familiari in un periodo storico in cui questo suonava inconcepibile.

Penso ad esempio a quando nel 1930, madre di tre figlie (di cui l’ultima, Giulia appunto, di soli due mesi!) decide di ripartire per Parigi e poi per Londra, dove inizierà la sua avventura come scultrice, mentre la suocera e poi lo stesso Mario Mafai si occupano delle bambine. Oppure penso al fatto che, con Mario Mafai, si sposano con rito civile solo nel 1935.

Questa indipendenza che incontra determinazione e consapevolezza di sé si ritrova in molti autoritratti, prima tra tutti Autoritratto con tuta blu degli anni Quaranta che è nella mostra alla Galleria Nazionale e che rappresenta l’immagine potentissima di un’artista nel pieno della sua operatività, con i propri strumenti da lavoro.

Giulia Mafai sosteneva che sua madre fosse un’ingenua assetata di vita, infatti, pur appartenendo alla Scuola Romana, pur avendo questa forte identità ebraica, Antonietta Raphaël sembra fuggire da facili etichette. A cosa pensate sia dovuto questo suo essere estranea ad ogni cliché?

G. C. e A. T. Probabilmente è legato al suo costante non sentirsi a proprio agio in una definizione univoca, che in qualche modo, come la parola “finito” in relazione alle sue opere, le sapeva di morte, come afferma in una delle pagine del suo diario. Al contrario, ritrovarsi (e porsi) in una condizione di diversità le permetteva di fare esperienza della vita e dell’arte in tutte le sue forme. Antonietta sapeva di essere “differente” e il suo grande anticonformismo sta proprio nel non volersi riconoscere in alcuna etichetta.

Non si definiva femminista, ma di fatto lo è stata eccome; ha sempre rivendicato le sue origini lituane ma è stata definita da Cesare Brandi (e non solo) “l’unica autentica scultrice italiana”; ha rinnegato per molti versi il suo ruolo di madre ma poi i suoi temi vertono proprio sulla maternità e la fertilità … potremmo andare avanti ancora!

Addirittura rifiutò categoricamente di essere classificata come “La sorellina di latte dello Chagall”, definizione che usò Roberto Longhi nel 1929, quindi agli inizi della sua carriera, e che probabilmente le avrebbe fatto comodo in quanto l’artista russo godeva già di una fama internazionale.

Insomma Antonietta è sempre stata una persona indipendente, e questa indipendenza le è costata fatica e sofferenza ma alla fine ci ha insegnato anche molto sul ruolo della donna in quel preciso momento storico, su cosa significhi appartenere ad una minoranza ma soprattutto sulla potenza dell’arte che tutto può e tutto muove.

Antonietta Raphael. Attraverso lo specchio – Inaugurazione mostra – ph. Monkeys Video Lab
Info mostra
  • Antonietta Raphaël. Attraverso lo specchio
  • a cura di Giorgia Calò e Alessandra Troncone
  • con la supervisione scientifica di Giulia Mafai e la collaborazione di Ariel Mafai Giorgi
  • Promossa e realizzata con la collaborazione dell’Istituto Lituano di Cultura e l’Ambasciata di Lituania a Roma
  • fino al 30 gennaio 2022
  • Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, viale delle Belle Arti, 131 – Roma
  • Orari di apertura: da martedì a domenica: 9.00-19.00
  • +39 06 32298 221 – lagallerianazionale.com – #LaGalleriaNazionale gan-amc@beniculturali.it
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Maria Arcidiacono Archeologa e storica dell'arte, collabora con quotidiani e riviste. Attualmente si occupa, presso una casa editrice, di un progetto editoriale riguardante il patrimonio del Fondo Edifici di Culto del Ministero dell'Interno.

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