David Bowie, un anniversario e un capolavoro duraturo

Per ricordare l’anniversario di David Bowie (8 gennaio 1947 – 10 gennaio 2016), sarebbe bello potersi regalare un vinile a tiratura limitata con due cover di John Lennon e Bob Dylan cantate proprio dal Duca Bianco.

O sedersi in sala godendosi Stardust – David prima di Bowie (Stardust), bio-pic del 2020 diretto da Gabriel Range, definibile più precisamente “road-trip movie rivelatorio” (cit.: Mark Beaumont su “NME”) che segue le vicende di David Bowie, interpretato da Johnny Flynn, che nel 1971 attraversando gli Stati Uniti d’America scrive Ziggy Stardust e crea il suo alter ego omonimo alla canzone (ma il film non è biografico e, oltretutto, la famiglia di Bowie non è stata coinvolta in alcun modo nella sua realizzazione, come ha dischiarato, stizzito, non troppo a torto, il figlio di David, Duncan Jones).

A sei anni dalla scomparsa, il suo mito non accenna ad affievolirsi, come non si scalfisce l’efficacia seduttiva del Glam Rock (vedi, in Italia, il fenomeno-Achille Lauro nella sua Gli uomini non cambiano; e i più talentuosi Maneskin) e il pionierismo della pensata più famosa e fantasmagorica di Bowie: quella nata nel 1972 (missione terminata il 3 luglio 1973 in tour), ovvero Ziggy Stardust.

Si trattava di una creatura extraterrestre giunta sulla Terra come messaggero che annunciava la venuta dell’astronauta Starman, incaricato di salvare il Pianeta e approfondito nell’album The rise and fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars.

Questo istrione è un distillato di contaminazioni varie, in debito parziale con il cantante e show-man flippatissimo Vince Taylor, ma non solo:

“Il Rock è la più importante espressione artistica di questo secolo. Ma io amo anche creare i personaggi, la narrativa, gli scenari…” (D. B.)

Ziggy Stardust si è subito impostocome una creazione generazionale tra le più avveniristiche e profetiche, con alcune ramificazioni cinematografiche: si pensi a L’uomo che cadde sulla terra, pellicola di fantascienza ormai cult, diretta da Nicolas Roeg, scritta da Paul Mayersberg (che prese larghissimo spunto dall’omonimo romanzo del 1963 di Walter Tevis) in cui, nel 1976, Bowie fece il suo debutto cinematografico come protagonista, appunto, alieno (Thomas Jerome Newton, viaggiatore interstellare che giunge in incognito sulla Terra per salvare il suo pianeta morente, Anthea, flagellato da una serie di guerre atomiche, ma che fallirà la sua missione).

Film visionario, sperimentale nell’estetica fotografica all’avanguardia, pluripremiato e ancora tanto memorabile da meritare una serie dedicata (by Alex Kurtzman e Jenny Lumet – già coinvolti in Star Trek – la cui prima stagione, che da The man Who Fell to Earth in qualche modo deriva, si dice imminente), è una narrazione dolente e straniante; e assai politica, pur se in modo simbolico, in cui passano tematiche caldissime ancora oggi: prevaricazione e violenza del potere, paura del diverso, discriminazione di genere, razza, religione e ideologia, sperequazione economica, cecità della politica, tecnologie, questioni ambientali…

Tanto Thomas Jerome Newton si presentava in modo minimale, scarno, maschile pur se non macho, un antieroe, understatement, quanto, al contrario, Ziggy Stardust era eccessivo, coloratissimo, androgino, enfatico; divenne subito e per sempre un manifesto rivoluzionario articolato: della fluidità e libertà di genere, ad esempio.

Mirabilmente fotografato da Mick Rock ma anche da Masayoshi Sukita, si è palesato come “la transizione più completa e riconosciuta” di Bowie, che lo ha trasformato “in icona immortale” e lo conferma veicolo visivo e meticciato delle sue canzoni, di chi seppe mostrarsi come un protagonista di Body Art prestata alla musica e allo spettacolo (lui, che il mondo dell’arte ha sempre praticato, anche da grandissimo collezionista, oltre che frequentatore della scena Pop).

Bowie, insomma, trasformò se stesso in un capolavoro: duraturo; e fino in fondo, con la malattia e la morte raccontate in un brano e nel video Lazarus, il più coraggioso, complesso, sofisticato lascito artistico dell’uomo, della Rock Star e del performer insieme…

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Con una Laurea in Storia dell'Arte, è Storica e Critica d’arte, curatrice di mostre, organizzatrice di eventi culturali, docente e professionista di settore con una spiccata propensione alla divulgazione tramite convegni, giornate di studio, master, articoli, mostre e Residenze, direzioni di programmi culturali, l’insegnamento, video online e attraverso la presenza attiva su più media e i Social. Ha scritto sui quotidiani "Paese Sera", "Liberazione", il settimanale "Liberazione della Domenica", più saltuariamente su altri quotidiani ("Il Manifesto", "Gli Altri"), su periodici e webmagazine; ha curato centinaia di mostre in musei, gallerie e spazi alternativi, occupandosi, già negli anni Novanta, di contaminazione linguistica, di Arte e artisti protagonisti della sperimentazione anni Sessanta a Roma, di Street Art, di Fotografia, di artisti emergenti e di produzione meno mainstream. Ha redatto e scritto centinaia di cataloghi d’arte e saggi in altri libri e pubblicazioni: tutte attività che svolge tutt’ora. E' stato membro della Commissione DIVAG-Divulgazione e Valorizzazione Arte Giovane per conto della Soprintendenza Speciale PSAE e Polo Museale Romano e Art Curator dell'area dell'Arte Visiva Contemporanea presso il MUSAP - Museo e Fondazione Arazzeria di Penne (Pescara), per il quale ha curato alcune mostre al MACRO Roma e in altri spazi pubblici (2017 e 2018). È cofondatrice di AntiVirus Gallery, archivio fotografico e laboratorio di idee e di progetti afferente al rapporto tra Territorio e Fotografia dal respiro internazionale e in continuo aggiornamento ed è cofondatrice di "art a part of cult(ure)” di cui è anche Caporedattore.

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