Margherita Moscardini. Abitare significa rimanere stranieri

immagine per Margherita Moscardini, If Inhabiting Means Remaining Foreigners, exhibition
Margherita Moscardini Dettaglio TERRA 01 (2022)
Terra prelevata a Gerusalemme su carta 250 gr. Cm 120x187 SASSO (2022)
Fusione in bronzo. Cm 27x17x11 Courtesy Ex Elettrofonica, Roma Foto: Andrea Veneri

Negli ultimi lavori di In Inhabiting Means Remaining Foreigners realizzati da Margherita Moscardini (Donoratico, Livorno, 1981), esposti da Ex-Elettrofonica, ritorna il caldo color ocra, tanto unico quanto denso e suggestivo.

Il colore della terra, quella terra infiammata dal sole e dalle deflagrazioni delle bombe della peritura contesa, che va avanti sin dagli inizi dell’epoca storica, la stessa terra della città adagiata sulla cresta dei Monti di Giuda: Gerusalemme. La città a lungo contemplata da lontano come, appunto, una Terra Promessa, ammirata dal territorio giordano (che la foto Dead Sea, 2018, testimonia e racconta), dalla quale l’artista era separata dal Mar Morto e da contorti motivi burocratici, che permette passaggi da un senso e non dall’altro.

Quella tinta, calda e domestica , che si ritrova anche nella foto Mount Nebo (2017 – dal quale si può ammirare la Terra Santa) ed è stata già protagonista de Le fontane di Za’atari (da una delle 61 fontane mappate nell’immenso campo profughi giordano, al confine con la Siria, è stato ricavato un calco in resina e terra, quindi in scala 1:1, ed esposto anche al museo MAXXI di Roma nonché a Pastificio Cerere, ma con una messa in opera che ne rallenta la comprensione: non in orizzontale, come sono le fontane, bensì quasi in verticale, tanto da rendere possibile una contemporanea visione di entrambe le facce, sia il verso che il recto).

In quel progetto, accompagnato da una serie di disegni in cui le figure umane si confondevano con la natura, il colore serviva per definire e contestualizzare una scultura, circoscrivere un lembo di deserto; qui, invece, è adottato per campire i grandi fogli di carta da 250gr.: approntate sulle pareti, come squarci, come finestre su una distesa infinita, finanche adagiate sul pavimento (Terra 01, 2022 – cm 120×187), a nominare la vastità di quell’intero territorio dell’altopiano della Giudea, una sorta di vessillo del luogo di felicità garantito da Dio. Carta accompagnata da una piccola scultura in bronzo: un Sasso (2022) che, spaccandosi, rivela la mappa di Gerusalemme. I piccoli pezzi sono due territori separati ma fanno parte della municipalità di Gerusalemme.

Queste metà formano due promontori, due isole, perché, per Margherita Moscardini, la questione di Gerusalemme è separata dall’idea di Israele, perché vede la città come simbolo mondiale che non appartiene a nessuno e a nessuna nazione e, per questo, il luogo ideale in cui si può realizzare la cittadinanza universale.

L’artista, per cesellare le proprie ricerche e analisi, i propri studi, da sempre si serve di media diversi, che spaziano dal disegno alla scrittura, dall’installazione alla fotografia, dal video a interventi in larga scala, con i quali formalizza le trasformazioni (urbane quanto sociali, storiche e ambientali) di contesti individuati come portatori di valori esemplari e universali.

Contesti fisici e mentali, quanto letterari. Penso all’installazione della scritta realizzata a filo di neon presso la direzione generale della Banca di Bologna, con la quale proponeva il titolo del nono capitolo del testo di Hannah Arendt, Origini del totalitarismo (1951), ovvero The Decline of the Nation State and the End of the Rights of Man [Il tramonto dello stato nazionale e la fine dei diritti umani], presentando, cioè, la sintesi della lucida lettura della filosofa tedesca sugli errori tragici commessi dai padri fondatori del moderno Stato-Nazione in Europa: aver considerato coloro che erano senza Stato, come un’eccezione, invece di vederli come paradigma di una nuova coscienza storica; di basarsi sul principio di Stato-Nazione territorio, invece di tutelare l’esule, le minoranze, creando, di conseguenza, una moltitudine di apolidi, rifugiati, profughi, perdendo la possibilità di ripensare il concetto di cittadinanza, basato sulla condizione di esilio.

Possibilità non accolta allorquando, la fuga del popolo siriano, nel 2012, divise l’Europa tra coloro che volevano e coloro che non volevano accogliere i profughi, piuttosto che ripensare e mettere in discussione i principi fondativi, e difendere un cittadino a prescindere dall’appartenenza a una nazione o a un territorio, perché, come affermato di nuovo dalla Arendt, “la città è la gente”. E per l’artista, il campo di Za’atari, sorto all’indomani di quella che il Comitato Internazionale della Croce Rossa ha chiamato “guerra civile”, incarna perfettamente sia il concetto di cittadino da difendere indipendentemente dall’appartenenza, quanto l’idea dell’esistenza di realtà nuove, ignorate: il campo, concepito come qualcosa di temporaneo, in realtà è divenuto una realtà urbana destinata a durare nel tempo, tanto da essere riconosciuto, per estensione e densità di popolazione, come la quarta città della Giordania.

L’intero progetto includeva anche la creazione di un circolo virtuoso: le fontane mappate, diventano sculture i cui ideatori sono i profughi, a cui è riconosciuta l’autorialità, e alle sculture una giurisdizione speciale di extraterritorialità. Tali sculture potranno essere acquistate da Istituzioni e Amministrazioni europee, ed esposte negli spazi pubblici.

I proventi della vendita, ovviamente, andranno all’autore della fontana. Proseguendo, dunque, la sua riflessione sulla possibilità di una cittadinanza e di un luogo altri, sembra voler dar voce e spazio agli elementi naturali capaci di ospitare, senza preconcetti e pregiudizi, l’essere umano.

Perché questa personale appare la continuazione di Inhabiting without Belonging: lì il mare, qui la terra; li abitare senza appartenere; qui abitare rimanendo stranieri. Un essere forestieri che la stessa parola in antico ebraico gherìm (=straniero residente) suggerisce sia nel sostantivo gher (=straniero e, nella Gerusalemme biblica, colui che coabitava paritariamente all’interno della città insieme al cittadino) che nel verbo ghur (=abitare), abitare e estraneità hanno, quindi, la stessa radice, a indicare che abitare vuol dire rimanere straniero, l’unica condizione che consente non solo di non innalzare muri, ma di vivere senza barriere, perché tutti stranieri in questa Terra che, nonostante tutto, continua ad ospitarci. Radice verbale condivisa e resa ancora più evidente dalle sculture in bronzo delle tre parole.

Un concetto di estraneità che, se veramente fatto nostro, introiettato fino in fondo, potrebbe guidare le scelte e le azioni in ogni campo, dalla politica alla religione, dalla filosofia alla sociologia, per creare concretamente dei “cittadini del mondo”, che abitano senza appartenere, in un maggior rispetto dell’ambiente che li ospita.

  • Margherita Moscardini | In Inhabiting Means Remaining Foreigners
  • fino al 12 marzo 2022
  • Ex-Elettrofonica – vicolo di Sant’ Onofrio 10, Roma
  • Ingresso gratuito
  • Orari: da martedì a venerdì dalle 15 – 19 o su appuntamento.
  • info: t. +39 06 64760163, info@exelettrofonica.com, www.exelettrofonica.com
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Daniela Trincia nasce e vive a Roma. Dopo gli studi in storia dell’arte medievale si lascia conquistare dall’arte contemporanea. Cura mostre e collabora con alcune gallerie d’arte. Scrive, online e offline, su delle riviste di arte contemporanea e, dal 2011, collabora con "art a part of cult(ure)". Ama raccontare le periferie romane in bianco e nero, preferibilmente in 35mm.

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