We are The Garden. Oto Hudec

We are the Garden - Oto Hudec, AlbumArte

Varcata la soglia, un igloo assemblato con una struttura in legno ricoperta di un telo di plastica trasparente, è quanto immediatamente accoglie chi visita la prima personale in Italia di Oto Hudec (Košice, SK, 1981). Curata da Lýdia Pribišová, negli spazi della no-profit AlbumArte, We are the Garden mette il visitatore di fronte a una forzata riflessione, da cui ormai nessuno dovrebbe più rifuggire: le conseguenze dell’agire umano sull’ambiente.

Da sempre, nell’immaginario collettivo, il futuro (prossimo o lontano) ha una rappresentazione di esseri viventi bardati con ingombranti tute spaziali, che vivono in abitazioni a calotta, costruite in ambienti desertici, anche della Luna o di Marte. Situazioni altrettanto diffuse negli scenari post apocalittici proposti dai numerosi film di fantascienza.

Probabilmente perché l’igloo, che evoca la calotta celeste, risponde all’idea di unità abitativa minimale, nonché agli elementi basici e primordiali impressi nel DNA dell’essere umano, nonostante la millenaria evoluzione. Quella basicità ben espressa da Mario Merz nel corso di tutta la sua carriera artistica. Infatti, sin dagli esordi -radicati nel lontano 1967, ma germogliati durante il suo periodo di prigionia nel corso del Secondo Conflitto mondiale per le sue posizioni antifasciste-, ha concentrato la sua ricerca nello studio della natura, costruendo igloo con i più disparati materiali e misure.

Anche per Oto Hudec quell’igloo, realmente impiantato nel giardino ereditato dal nonno a Bratislava (ma che potrebbe essere costruito, senza alcuna difficoltà, addirittura a Nüwa City) qui, per ovvie ragioni, riprodotto in scala (25mq sono le misure reali), è simbolo delle relazioni tra individualità e collettività, tra uomo e natura, in sintesi una sorta di rifugio, per una ricerca di vita sostenibile.

Perché, fondamento della ricerca dell’artista slovacco, sono i temi sociali riguardanti i veloci e s-travolgenti cambiamenti climatici. Quelle alterazioni che influenzano la quotidianità di milioni di persone che, ogni giorno, devono fare i conti con la scarsità dell’acqua, la desertificazione del terreno, lo scioglimento dei ghiacciai, l’innalzamento dei mari … Riflettendo su tali alterazioni, per le quali tuttora non sono stati adottati seri e radicali provvedimenti, Oto Hudec ha immaginato delle possibili conseguenze, soprattutto sulla luce, in un prossimo futuro neanche tanto lontano.

In questa distopica visione, proiettata tra 40/50 anni, ha supposto che la potenza e, quindi, il calore della luce potranno essere molto diversi da quelli attuali; e per questo l’uomo sarà costretto a indossare delle tute, come quelle degli astronauti, per proteggersi dal calore del sole che ha fatto salire le temperature a 50°.

Utilizzando materiali poveri e media diversi, dal video alle foto, all’installazione, l’artista analizza e osserva (e costruisce) tale futuro, in ogni suo aspetto, dando forma a un progetto laborioso, sviluppato nel tempo e nello spazio, e nel quale si confondono e si fondono, visioni e realtà, immaginario e vita.

Quell’igloo, nell’esposizione, è pensato come una serra nel quale proteggere le piante utili per la sussistenza; nella realtà, al suo interno, è nata una palma, e così, piccole piantine realizzate col cartone, assumono questo doppio ruolo. Quindi, un luogo realmente esistente (come testimoniato da una fotografia di medio formato, esposta nella mostra), protagonista di una visione: un luogo normalmente frequentato da conoscenti dell’artista, un luogo di incontro e di confronto, e con oggetti realmente presenti nel giardino, nel quale le persone possono materialmente seminare e piantare qualcosa.

L’igloo è messo in stretta relazione con la piccola abitazione: le piante coltivate al suo interno forniscono l’ossigeno necessario agli abitanti della casa. Come un attento archeologo, l’uomo del futuro, cercherà e conserverà i semi e le piante utili per la sua sopravvivenza come per ripristinare campi e foreste. E, come in un museo etnografico, sono mostrati anche gli utensili a suo tempo utilizzati per questa ricognizione e conservazione.

Altrettanto valore simbolico è affidato alla messa in mostra, pezzi di legno della forma di libri (con titoli ugualmente allarmanti): oggetti ormai museali, perché andati completamente perduti? O perché è vietato leggerli? O perché non più esistenti.

Mentre, al bellissimo e delicato video in stop-motion, Oto Hudec consegna il racconto del mondo da lui immaginato: un uomo e una bambina cercano di sopravvivere in quel futuro, probabilmente conseguenza anche di un disastro nucleare (e alla luce degli odierni fatti Russia/Ucraina, non appare neanche così tanto distopico) indossando tute speciali per proteggersi dal calore, producendo autonomamente il cibo. Esiste, pertanto, un continuo altalenante tra vita e morte, tra passato e presente/futuro: gli elementi destinati alla semina rappresentano sì qualcosa di vivo, ma sono legati a qualcosa di passato, di morto.

Sebbene il video, quanto l’intera esposizione, mostrino uno scenario di solitudine, desolante e triste, nel quale l’uomo viene privato anche dell’apporto consolatorio dei libri, con pochissime possibilità di recupero, Oto Hudec offre una tenue quanto flebile alternativa.

Un panorama deprimente costruito affinché sia condotta una reale riflessione: un cambio del paradigma di relazione tra uomo e ambiente centrato non sullo sfruttamento ma sulla sostenibilità, con l’impegno di riparare anche quei danni sociali inflitti a coloro che vivono fuori dall’area cosiddetta occidentale e che non hanno minimamente contribuito ai disastri ambientali ma che ne pagano le salate conseguenze.

Info

  • Oto Hudec | We are the Garden
  • A cura di Lýdia Pribišová
  • fino al 22 aprile 2022
  • AlbumArte – via Flaminia 122, Roma
  • Orario: dal martedì al sabato dalle 15.00 alle 19.00
  • Ingresso libero
  • Info: t. 06 24402941 – info@albumarte.org
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Daniela Trincia nasce e vive a Roma. Dopo gli studi in storia dell’arte medievale si lascia conquistare dall’arte contemporanea. Cura mostre e collabora con alcune gallerie d’arte. Scrive, online e offline, su delle riviste di arte contemporanea e, dal 2011, collabora con "art a part of cult(ure)". Ama raccontare le periferie romane in bianco e nero, preferibilmente in 35mm.

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