A matter of life and death. La terracotta si mostra alla Thomas Dane Gallery

Nel film Scala al Paradiso del 1946, di Emeric Pressburger (1902-1988) e di Michael Powell (1905-1990), il personaggio interpretato dall’attore David Niven (1910-1983), un pilota di caccia della Seconda Guerra Mondiale, si lancia dal suo bombardiere Lancaster in fiamme senza paracadute. Atterra su una riva che gli è familiare, ma scopre ben presto di non essere né vivo e né morto, e di dover contrattare la sua vita in uno spazio tra il Cielo e la Terra. Come l’esistenza umana, anche la materia si presta ad una condizione di sospensione. Un esempio eloquente è l’argilla, elemento organico da plasmare e modificare, in bilico fra la vita e la morte.
Una profonda riflessione sulle capacità della terracotta è visibile nella mostra collettiva degli artisti, Andrew Lord, Lynda Benglis, Phoebe Cummings, Lucio Fontana, Lawson Oyekan, Philip King, Masaomi Yasunaga, Serena Korda, Keith Harrison, Leoncillo Leonardi, Magdalene Odundo, Anya Gallaccio e Chiara Camoni, intitolata A matter of life and death, curata da Jenni Lomax, allestita nelle sale della Thomas Dane Gallery a Napoli e visibile fino al 28 maggio 2022.

Ad accogliere i visitatori nella prima sala della galleria sono le sculture in argilla di Andrew Lord (1950), artista visuale attivo soprattutto nel campo della ceramica. Nato a Rochdale, nel Lancashire, ha frequentato il Rochdale College of Art e la Central School of Art and Design di Londra.

E’ artefice di opere che affrontano l’imminente catastrofe. La loro fisicità si incarna nella materia e nella forma. Circle of Artichokes e Circle of sixteen swallows, sono cerchi di rondini e carciofi fissati al muro, possiedono una qualità effimera, alludono ai flussi stagionali, al ciclo di vita e della morte della natura. I volatili che presentano una serie di ferite sul corpo, sono stati “curati” con l’oro, riprendendo l’antica tecnica “kintsugi” dell’arte giapponese. Questo procedimento mostra l’imperfezione della materia stessa.

Nella sala centrale, invece, si alternano le opere di diversi artisti. Riconoscibili a primo impatto sono quelle di Lucio Fontana (1899-1968).

Giunse in Italia dall’Argentina nel 1905, dopo una serie di terremoti che devastarono la nazione. Questi eventi catastrofici probabilmente incisero sulla creatività dell’artista e sulla qualità dei primi manufatti. L’argilla era un materiale che gli consentì di fermare il movimento e il gesto, generando nel contempo una sensazione di luce e spazio, tanto da definirle “terremotate ma ferme”, come le sculture in mostra: Concetto Spaziale, Pesce e Fondo Marino. Inoltre, Fontana comprese che tra l’esistere e il non, vi era l’incerto, individuando quest’ultimo nella natura precaria delle proprietà e dei processi di lavorazione della terracotta. Combinando terra, umidità, temperatura e aria si crea un cambiamento che porta da uno stato all’altro, un mix di fragilità e forza. Perforare un dipinto viene visto come un oltraggio, mentre bucare una ceramica diventa necessario per prevenirne l’esplosione.

Deliziose ed eleganti sono le sculture di Phoebe Cummings (1981), nata a Walsall, in Inghilterra e vive a Stafford. Ha studiato Ceramica alla Brighton University nel 2002 e ha completato un MA in Ceramica e Vetro alla Royal College of Art in 2005.

Lavora utilizzando prevalentemente argilla cruda. Le sue opere e le sue installazioni poetiche enfatizzano la materialità, la fragilità, il tempo, la creazione e il decadimento. I suoi imponenti interventi artistici sono spesso realizzati direttamente in loco, come Untitled (sconce) e Prelude, presenti in mostra, in cui emerge uno sviluppo istintivo delle tensioni tra oggetto e luogo. La sua “fontana” e il suo “candelabro” sono esposti all’aria, al sole e all’acqua, il loro ciclo vitale è destinato al disfacimento e a ritornare polvere. Sono manufatti artigianali, alla stregua di una natura morta olandese o di un’opera in legno intagliato di Grinling Gibbons (1648-1721). L’artista si interroga su cosa porteremo avanti nel futuro producendo sculture complesse, fatte a mano e squisitamente raffinate, basate su piante antiche e rituali primitivi, intrise di un senso di magia e misticismo. Mettendo insieme elementi del paganesimo inglese e l’eccesso estetico del design barocco e rococò, gli oggetti risultanti sono considerati come ornamenti distopici di una futura antropologia o fragili reliquie di un passato quasi dimenticato.

Diverse per stile, sono le opere, The Pitcher, Head, Bodhisattva e Whooah, di Phillip King (1934-2021), allievo di Anthony Caro (1924-2013), dai tratti surrealisti e minimalisti.

Ha studiato lingue moderne al Christ’s College dell’Università di Cambridge e scultura alla Saint Martin’s School of Art di Londra. L’artista libera la tensione gonfia e squilibrata delle sue sculture attraverso un processo di sottrazione che ne elimina l’integrità. Nonostante le ferite inferte, questi oggetti mantengono un equilibrio e assumono un aspetto umano di vulnerabilità e resistenza. E’ evidente un’aura di conflitto nelle sue opere. Esse adottano delle posture classiche di resistenza stoica. Questa forza è dovuta al fatto che i “corpi” di argilla non smaltata assomigliano alla pietra di Portland.

Al contrario, i lavori, Zumaque, Bird Nest #12 e Bird Nest #2, di Lynda Benglis (1941), rappresentano una proiezione futuristica. L’artista americana ha studiato alla McNeese State University di Lake Charles, Louisiana, conseguendo un BFA presso il Newcomb College di New Orleans, che allora era il college femminile della Tulane University, dove approfondì lo studio della ceramica e della pittura.

Le sue sculture sono piene di fluidità lucida, le vorticose forme mostrano la forza meccanica con cui sono state create. Sospese a mezz’aria, come le linee di velocità in una animazione, sono disegnate per dare l’idea che potrebbe succedere qualcosa.

Visivamente impattanti sono le ceramiche collocate al centro dello spazio espositivo, di Lawson Oyekan (1961), nato a Stockwell, in Inghilterra, ha frequentato il Loyola College, Ibadan, in Nigeria. Nelle sue sculture introduce dei testi in inglese o nella lingua dei suoi genitori, lo Yoruba. Le parole si fondono con le forme corporee e mostrano la resistenza dell’umanità di fronte alla disperazione.

In Physics Eternal 1, le due strutture alte, poggiate a terra, parlano l’una all’altra delle rispettive somiglianze e differenze. Lacerazioni e fori creati da strisce sovrapposte di argilla decorano le opere, liberando l’aria e permettendo all’energia di fluire avanti e indietro, dentro e fuori.

Una intera sala della galleria è dedicata ai pregevoli manufatti di Masaomi Yasunaga (1982), artista che vive e lavora a Iga-shi, nella prefettura di Mie, in Giappone. Ha conseguito un Master in Progettazione Ambientale presso l’Università Sangyo di Osaka.

E’ stata una studentessa di Satoru Hoshino (1945), esponente del gruppo ceramico d’avanguardia Sodeisha: un movimento del dopoguerra, anni ’40 – ’90, che ha messo in discussione la funzionalità della ceramica e ha aperto la strada a una nuova filosofia scultorea. Gli artisti di Sodeisha si sono ribellati alle tradizioni ceramiche prevalenti in Giappone per creare opere d’arte basate sull’esistenza e sull’emotività. Yasunaga estende l’eredità dell’etica sperimentale di questo gruppo concentrandosi sul processo di creazione, incentrato sulla forma scultorea piuttosto che sull’uso funzionale dell’oggetto. Al ritmo della luna, la forza delle onde del mare trasformano la roccia in ciottoli, successivamente in sabbia e, infine, in polvere. Con il calore, la sabbia si scioglie per formare il vetro, mentre con l’umidità la polvere diventa argilla. I suoi lavori, Melting Vessel, Fused Vessel, Crown, Stone Vessel e Tower raccolgono le forze dell’erosione e sono formati da smalti di argilla, ciottoli e vetro. Yasunaga ha aggiunto le ceneri della nonna creando strutture misteriose. Queste forme improbabili, vengono trasformate mediante la sepoltura e cottura nella sabbia, nella terra o sotto i sassi. E’ un processo fisico che imprime sugli oggetti una qualità resistente e senza tempo, portandoli pericolosamente vicini alla disintegrazione.

Continuando con il percorso espositivo ci si imbatte nelle sculture di Serena Korda (1979), artista che vive a Londra, in Inghilterra. Ha studiato alla Middlesex University e ha conseguito il Master of Arts in Printmaking presso il Royal College of Art nel 2009.

Sperimenta diverse discipline: la scultura, il suono, la performance e il cinema. In Witch Bottles, che appartengono ad una serie chiamata The Hosts, i contenitori rigonfi attendono un soffio di aria capace di trasformarli in strumenti sonori. Messi insieme formano una “orchestra di brocche”, offrono diversi timbri acustici e diverse intensità di tono capaci di creare melodie imprevedibili. Realizzata per “incitare le sirene a cantare il mare”, And She Cried Me a River, è la gigantesca collana con grani in ceramica che pende drappeggiata sulle porte in vetro della galleria. La testa di una sirena, incarnata nella collana, versa lacrime di argilla su tesori oceanici e un rumore inaudito diventa palpabile.

Keith Harrison (1967), è l’unico artista presente nell’exihibit con un video e non con un manufatto ceramico. Durante il corso di laurea in disegno industriale a Cardiff ha apprezzato la libertà e la versatilità dell’argilla per uno dei suoi progetti e in seguito ha cambiato corso di studi optando per la ceramica.

Ha conseguito un Master in Ceramica e Vetro presso la RCA nel 2002. E’ stato coinvolto in una serie di esperimenti pubblici dal vivo basati su processi che indagano la trasformazione fisica della creta dallo stato grezzo utilizzando sistemi elettrici industriali e domestici. L’uso di questi dispositivi portatili ha consentito di eseguire cotture dal vivo in luoghi alternativi come un soggiorno, un laboratorio scientifico o in una caffetteria. Il procedimento di cottura è sempre incerto. Le trasformazioni alchemiche dello stato fisico avvengono di nascosto, occultate nell’intenso calore di un forno o sepolto sotto braci rosse e calde. Harrison ha realizzato un video, Resistor, della cottura di una ceramica che si svolge nel salotto della nonna. Ha avvolto l’argilla egiziana intorno agli elementi di un piccolo riscaldatore elettrico a barre, che schizza, brilla e scoppietta, mentre si sente la nonna fuori campo che gli chiede se vuole una tazza di tè e qualcosa da mangiare. Sembra indifferente alla minaccia e alla sicurezza degli arredi della sua casa. La tensione che attraversa la normalità di questa scena domestica viene enfatizzata quando si osserva la presenza del Vesuvio fuori dalla finestra della galleria.

E proprio a Napoli, la creta si trova ovunque. I luoghi di culto sono pavimentati con la terracotta più che con il marmo. I tetti degli edifici antichi sono coperti di tegole di argilla rossa. La città e i suoi musei sono pieni di meravigliose ceramiche archeologiche, antropologiche e architettoniche, e nella vicina città di Ercolano ci sono tubature di terracotta, pentole da cucina e anfore che sono sopravvissute alla devastante eruzione vulcanica del 79 d.C.. Nelle loro diverse manifestazioni, questi manufatti raccontano storie tramandate nel tempo.

Anche se non è napoletano, la ceramica, Cariatide, di Leoncillo Leonardi (1915-1968) si sente a casa propria in questa città. Ha studiato all’Istituto d’Arte di Perugia e successivamente all’Accademia delle Belle Arti di Roma. La figura colorata e smaltata celebra la società, i lavori e i miti.

Leonardi cercò di utilizzare l’argilla come materia astratta, sfruttando il suo aspetto terreno e la sua mutevolezza per rappresentare la tragedia e la sofferenza umana. I segni, come parole in una scrittura sconosciuta, sono disegnati con uno smalto del colore della lava fusa sulla superficie della terracotta scura.

A Magdalene A.N. Odundo (1950), è dedicata una sala intera. Nata a Nairobi, in Kenya, ha ricevuto la sua prima formazione in India e successivamente nel suo paese di origine.

Ha frequentato il Kabete National Polytechnic in Kenya per studiare Grafica e Arte Commerciale. Si trasferì in Inghilterra nel 1971. Dopo gli studi a Farnham, nel Surrey, completò la sua formazione in arte e grafica presso la Cambridge School of Art, specializzandosi in ceramica. Come l’eroe del film di Powell e Pressburger, anche lei affronta quello spazio incerto tra Cielo e Terra, con l’intento che la forza del calore possa fornire i mezzi per sopravvivere piuttosto che perire. Le sue opere, Untitled Vessel, Symmetrical Series, sono modellate tirando via i pezzi dal cuore del blocco di argilla, lavorando dall’interno verso l’esterno, le forme scavate sono visivamente animate dal loro contenuto d’aria. Sembrano inspirare ed espirare, con l’illusione del movimento sulla superficie brunita, ossidata e annerita. Nelle sculture è evidente la conoscenza della lavorazione dell’argilla nel passato e del processo di realizzazione.

Anya Gallaccio (1963), è un’artista scozzese e ha studiato al Kingston Polytechnic e al Goldsmiths College. E’ Professore presso il Dipartimento di Arti Visive dell’Università della California, San Diego (UCSD).

In gran parte del suo lavoro utilizza materiali diversi e a volte questi subiscono una modifica nel corso dell’esposizione. In Untitled, presente in mostra, l’azione viva, performativa, di creazione, distruzione e bonifica è all’origine della sua creatività. Alcuni di questi frammenti sagomati possiedono le qualità lussureggianti e seducenti di un ritrovamento geologico, mentre altri sembrano pezzi grotteschi di carcasse bruciate. Sono stati realizzati con una sequenza di processi imprevedibili, a partire da un lavoro di resistenza chiamato Beautiful Minds. Nel corso di diverse settimane, una stampante 3D ha emesso estrusioni di argilla umida che cadeva a spirale sul pavimento della galleria, con l’intento di costruire una replica in scala ridotta della Devil’s Tower, una montagna del Wyoming. Il risultato è stato approssimativo: un mucchio spigoloso di creta stratificata. Alla fine, l’argilla ha cominciato a rompersi casualmente in pezzi informi che potevano essere facilmente tagliati o allontanati dal resto del cumulo. Dopo aver scelto di conservare una selezione di queste sculture autoprodotte, Gallaccio le ha cotte industrialmente, per poi trasportarle nella Scozia settentrionale in un forno a legna all’aperto. Lunghe cotture successive, utilizzando materiali combustibili instabili, hanno conferito ad ogni pezzo una finitura e una patina uniche.

Nella veranda, dove si ammira il golfo partenopeo, sono collocati i Vasi Farfalla di Chiara Camoni (1974), artista che vive e lavora a Fabbiano, in Alta Versilia, in Italia. Ha frequentato l’Accademia di Belle Arti di Brera, dove si è laureata nel 1999.

L’anno successivo è stata direttore artistico dell’Istituto per la Diffusione delle Scienze Naturali di Napoli. I suoi vasi sottolineano le contraddizioni della natura, contrastando la suggestione scintillante della farfalla con la sua capacità di essere repellente per poter sopravvivere. Realizzati in argilla a spira, sono caratterizzati da rilievi a forma di falena o farfalla e impregnati delle ambiguità dell’antropomorfismo. Dotati di capacità mimetiche, specchianti, spiazzanti, sono oggetti che mettono essi stessi in discussione il loro posto nell’ordine delle cose. Potenzialmente dei vasi centrotavola, con fiori e fogliame incorporati, trasudano un potente simbolismo totemico, alludendo al virtuale, al folklore e alla magia.

Una sensazione di pericolo imminente sembra parte integrante delle opere in ceramica di tutti questi artisti, dato che la loro resilienza è stata costantemente messa a dura prova dal destino e dalle circostanze. Si tratta di una sensazione che viene amplificata dalla loro temporanea ricollocazione. In un luogo come Napoli, la cui vivacità e bellezza storica esiste a dispetto e proprio a causa della sua vicinanza ad un vulcano attivo: una città in cui le persone svolgono le loro attività e vivono i piaceri quotidiani camminando sopra le catacombe che contengono i teschi e le ossa dei loro antenati; dove si celebrano e si prega per le anime dei defunti recenti ad ogni angolo di strada, qui tutto è questione di vita e di morte.

 

Info

  • A matter of life and death | Andrew Lord, Lynda Benglis, Phoebe Cummings, Lucio Fontana, Lawson Oyekan, Philip King, Masaomi Yasunaga, Serena Korda, Keith Harrison, Leoncillo Leonardi, Magdalene Odundo, Anya Gallaccio, Chiara Camoni
  • A cura di Jenni Lomax
  • fino al 28 maggio 2022
  • Thomas Dane Gallery, via Francesco Crispi 69, Napoli
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Luca Del Core, vive e lavora a Napoli. E' laureato in "Cultura e Amministrazione dei Beni Culturali" presso l'Università degli Studi "Federico II" di Napoli. Giornalista freelance, ha scritto per alcune riviste di settore, per alcune delle quali è ancora redattore, e attualmente collabora con art a part of cult(ure). La predisposizione ai viaggi, lo porta alla ricerca e alla esplorazione delle più importanti istituzioni culturali nazionali ed internazionali, pubbliche e private.

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