Marisa Merz l’imperscrutabile. A Napoli

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All’interno del movimento dell’Arte Povera, emerso nell’Italia post-industriale e tumultuosa degli anni Sessanta, Marisa Merz (Torino, 23 maggio 1926 – Torino, 19 luglio 2019) occupa uno spazio molto singolare: unica donna del gruppo di avanguardia, ha mantenuto una presenza unica e longeva attraverso il silenzio, la circospezione e la delicatezza, con un’opera che ha continuato a riorganizzare generi, aspettative e interpretazioni.

Ci son voluti ben 17 anni per rivedere una mostra su di lei a Napoli, l’ultima venne allestita nelle sale del Museo Madre di Napoli, curata da Eduardo Cicelyn e Denys Zacharopoulos: fu concepita come un’installazione onnicomprensiva di un corpus di opere, che documentarono la ricerca quarantennale dell’artista, dove lo spazio espositivo fu uno stimolo a verificare e ridefinire, o meglio, a ricreare la fluidità di un pensiero per immagini che non si chiuse in un’affermazione conclusiva.

Ad omaggiare l’artista torinese nella città partenopea è ora la Thomas Dane Gallery, in via F. Crispi 69, a Napoli, con una mostra personale fino al 23 marzo 2024, consolidando, in questo modo, il sodalizio tra la Merz e il capoluogo campano.

Ad accogliere i visitatori nelle sale bianche della luminosa galleria d’arte sono le forme abbozzate delle sue famose testine in argilla cruda che rimandano a una natura primordiale. Liberate da ogni sovrastruttura e da una ricerca incentrata sul dettaglio, le statue si aprono a una dimensione antropologica, dove emerge la vera essenza della natura umana. Queste sculture poetiche e anti-monumentali sono lontane dalle logiche del sistema, di una ricerca del Bello Ideale, della produzione e del consumo. Sono un invito a riappropriarsi dell’esperienza autentica, del sé e del reale.

Appaiono gentili e umili, e si manifestano con espressioni tormentate, legate alle proprie esperienze di vita. Nelle mani dell’artista, l’argilla si trasforma in oggetti pseudo-animati: icone, ex-voto e memento mori, sono i temi ricorrenti.

I colli arcuati restituiscono l’ombra di volti stoici. Sembra di essere osservati da queste singole figure che si correlano alle sculture e agli affreschi visibili nei santuari di Napoli. Sono tributi che stregano come fantasmi. Una delle caratteristiche delle opere, delle installazioni e delle azioni della Merz è di trovarsi a proprio agio sia negli ambienti domestici, sia negli angoli della città e, soprattutto, nelle sale espositive.

Percorrendo le altre sale della galleria, nell’opera Senza titolo, formata da un triangolo in legno, paraffina e fili di rame che ne attraversano l’asse, il visitatore è coinvolto in una spirale meditativa che lo proietta verso le due estremità, da una parte l’apice, la punta della scultura e, dall’altra, la sua base, a seconda da dove la si osserva. Collocata su un tappeto al centro della stanza, questa installazione è circondata da disegni di volti posti sulle pareti che, come custodi, la sorvegliano dall’alto.

Rappresentano figure femminili che prendono forma dall’intreccio di linee, il cui tratto veloce è evocativo della forza e della tensione visibile nel filo di ferro. Isolate da qualsiasi contesto, le teste di donna o antropomorfe appaiono come sospese nel tempo e nello spazio. Sono forme sintetiche ancora instabili e in corso di definizione. I segni grafici disegnano masse amorfe che emergono sul foglio bianco, ed evidenziano un certo rigore nella ricerca inesauribile di figure caratterizzate da una liricità riservata e una vulnerabilità esistenziale.

Sembrano intrattenere tra loro un dialogo serrato, un campo di forza scandito da una successione di volti sconosciuti e trasfigurati, ma profondamente reali. La sovrapposizione di segni e materie sfocia in un ritmo quasi ossessivo, rievocano una dialettica tra la disciplina e l’intimismo, tra la costanza di una vivida attenzione e la sua imprevedibilità.

Imperscrutabile e misteriosa, la creatività della Merz è profondamente radicata nella tradizione e nel classicismo, e trova le sue origini ancestrali nei dipinti delle icone bizantine, nell’austerità del Trecento e nella tenerezza del Beato Angelico (1395-1455), nelle trasmutazioni di Medardo Rosso (1858-1928), fino ai metodi di studio di Costantin Brancusi (1876-1957) e al dinamismo spigoloso dei Futuristi. Si avvicina ai miti e agli idiomi dell’antichità e del Neolitico mediterraneo e viaggia attraverso lo spazio, il tempo e le discipline con pari agilità e ammiccante mistificazione.

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Luca Del Core, vive e lavora a Napoli. E' laureato in "Cultura e Amministrazione dei Beni Culturali" presso l'Università degli Studi "Federico II" di Napoli. Giornalista freelance, ha scritto per alcune riviste di settore, per alcune delle quali è ancora redattore, e attualmente collabora con art a part of cult(ure). La predisposizione ai viaggi, lo porta alla ricerca e alla esplorazione delle più importanti istituzioni culturali nazionali ed internazionali, pubbliche e private.

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