Catherine Opie. Walls, Windows and Blood alla Thomas Dane Gallery a Napoli

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Fotografie che documentano e danno voce ai fenomeni sociali, registrano gli atteggiamenti e le relazioni delle persone con gli altri e con lo spazio circostante. Un approccio concettuale e documentario nella creazione di immagini che riproducono in chiave del tutto nuova, ritratti, paesaggi e architetture. Queste idee caratterizzano il modus operandi di Catherine Sue Opie (1961), artista americana, che vive e lavora a Los Angeles, docente di Fotografia alla Università della California: ha conseguito il BFA presso il San Francisco Art Institute nel 1985, e un Master in Belle Arti presso il California Institute of the Arts nel 1988.

Osservazioni e riflessioni che trovano una corrispondenza visiva e concreta nella mostra personale dal titolo Walls, Windows and Blood, allestita nelle sale della Thomas Dane Gallery a Napoli, in via F. Crispi 69, fino al 2 dicembre 2023.

È un corpus di opere realizzato durante la residenza dell’artista all’American Academy a Roma, nell’estate del 2021. Tema dell’invito era “L’idea di Città”, che la Opie ha concepito studiando la storia e l’architettura della Città del Vaticano.

Affascinata da questo minuscolo Stato, ha focalizzato la sua attenzione su questo luogo, epicentro del potere religioso, politico e sociale, sulle sue strutture, sulla sua portata e sul suo impatto in un’epoca in cui le ideologie e le eredità del colonialismo sono oggetto di discussione.

In questo senso, la mostra Walls, Windows and Blood, è una continuazione dei progetti precedenti come The Modernist del 2017 e di Rhetorical Landscapes del 2019, e, più recentemente, del 2020, la serie in cui l’artista ha documentato un anno di manifestazioni senza precedenti contro la brutalità della polizia e l’iconoclastìa dei monumenti, in una road trip attraverso il Nord America.

Nei lavori menzionati, e anche in quello proposto negli spazi della galleria partenopea, Opie concentra il suo sguardo sul luogo e sul suo rapporto con l’identità, interrogandosi su ciò che è contenuto in questi simboli e luoghi di potere, e sulle nostre responsabilità personali e collettive in relazione alle strutture geopolitiche accettate.

Poiché lavorava a Roma, mentre il mondo affrontava i vari gradi del lockdown imposti dai rispettivi governi, ha avuto libero accesso ai Musei Vaticani, con la sola compagnia delle guardie di sicurezza e di alcuni visiting scholars.

Lavorando sia con la pellicola che con la macchina fotografica digitale, nelle sei settimane successive, ha immortalato con una metodologia sistematica e formale, sia il Museo, sia le Mura Vaticane, visitandole quattro o cinque volte alla settimana e trascorrendo lunghe ore nelle sale e nei corridoi vuoti.

Ad accogliere i visitatori nella prima sala della Thomas Dane Gallery sono i sette Walls verticali che si mostrano sia come fotografie, sia come sculture allo stesso tempo.

Appoggiate alle colonne architettoniche e alle pareti della galleria, ogni opera insiste su una coppia di piedistalli bassi in marmo rosso-rosa progettati da Katy Barkan, borsista dell’American Academy Architecture, e realizzati a mano da artigiani napoletani.

Catherine Opie ha documentato attraverso immagini in bianco e nero l’intero sistema murario intorno alla Città del Vaticano, concentrandosi su ogni angolo, sia concavo che convesso, ognuno con la propria telecamera di sicurezza.

Riprende le teorie degli artisti Bernd (1931-2007) e Hilla Becher (1934-2015) della New Topographics, artefici di una nuova fotografia contemporanea della quale furono protagonisti gli allievi dell’Accademia d’Arte di DüsseldorfAndreas Gursky (1955), Petra Wunderlich (1954), Thomas Struth (1954), Candida Höfer (1944) e Thomas Ruff (1958), che immortalavano la struttura come era effettivamente nel suo insieme, ovvero una composizione di forme.

Catherine Opie si collega a un altro elemento della filosofia dei Becher, di mostrare la concordanza fra oggetti e spazio in modo da dar vita ad un nuovo paesaggio: non vuole che prevalga il lato espressionista, ma quello oggettivo. Considera gli elementi architettonici come sculture vere e proprie, poiché mette in evidenza la forma esterna e non le caratteristiche strutturali.

Crea una tassonomia sistematica del sito, che si rivela nell’artefatto e nella materialità dei muri e del mezzo di stampa stesso. Questi elementi architettonici trovano un continuum visivo con le basi di marmo su cui poggiano i pannelli fotografici, le cui caratteristiche geometriche dialogano con il soggetto.

Le basi rimandano a un “blocco” tipico usato per appoggiare temporaneamente un’opera d’arte durante l’installazione, o un basamento usato per presentare e proteggere un oggetto. Nelle sue opere, essi si de-stabilizzano intenzionalmente, creano un senso di vulnerabilità e precarietà.

Se in precedenza, nel progetto del 2020, l’attenzione dell’artista americana era rivolta al ruolo e alla funzione di un monumento, al nostro rapporto con la Storia, e a come la società preservi, sostenga e mantenga i sistemi di potere attraverso questi siti e simboli, nelle opere visibili in mostra, ci chiede di mettere in discussione il potere di queste strutture architettoniche, e ci suggerisce che le loro fondamenta potrebbero non essere così stabili come sembrano.

Inoltre, la presenza delle telecamere in ogni istantanea, oltre a mostrare i rigidi sistemi di controllo dell’intero Stato, restituiscono una visione lontana dall’ecumenismo della Chiesa: sembra di osservare un luogo politico e non religioso.

Proseguendo con il percorso espositivo, le istantanee Windows si alternano alle Blood grids, e generano un dialogo tra loro e con lo spazio. Mentre i Walls sono formali, le Windows sono poetiche e silenziose, giocano con le ombre, la luce e i dettagli architettonici, con l’interiorità e l’esteriorità dello spazio: ne sono un esempio quelle con vista sul Vaticano o sulla città di Roma.

Altre finestre sono nascoste e coperte da tende: pongono delle domande su termini come trasparenza e opacità. Sono una metafora sul ruolo della Chiesa e sulla mancanza di verità nei confronti dei grandi temi della Storia e sugli eventi che hanno caratterizzato e segnato l’apparato ecclesiastico.

La Città del Vaticano rappresenta architettonicamente e metaforicamente una fortezza inespugnabile, un microcosmo di difficile accesso, che mostra di sé stessa, soltanto una versione, quella religiosa ed artistica.

Disponendo di sale completamente vuote, Opie ha avuto modo di soffermarsi silenziosamente sui singoli dettagli dei dipinti e degli arazzi dei Musei Vaticani, in particolare sulla rappresentazione del sangue e delle ferite, catturandoli fotograficamente con una meticolosa inquadratura ravvicinata.

Se Walls e Windows sono il corpo del Vaticano, le Blood grids sono la linfa vitale e rendono visibili le storie di violenza insite nella Chiesa.

Esse indagano su come l’apparato ecclesiastico nel corso dei secoli ha dato una propria narrazione degli eventi religiosi attraverso l’arte e su come oggi, noi possiamo dare una diversa interpretazione, focalizzando l’attenzione su un singolo dettaglio, che mostra un episodio di violenza, di sangue e di dolore.

Le immagini incorniciate sono presentate in una griglia modernista, un puzzle visivo, un rebus che l’osservatore elabora a seconda della propria sensibilità. Se da una parte, i diversi dettagli presentano uno stile eterogeneo, dall’altro, il sangue è l’elemento che accomuna tutte le opere.

La mostra si conclude con la singola fotografia intitolata No Apology, del 5 giugno 2021, che ritrae Papa Francesco al balcone su piazza San Pietro mentre si rivolge alla congregazione domenicale.

In questo giorno la Chiesa riconobbe per la prima volta, senza scusarsi, i corpi dei bambini indigeni ritrovati in tombe anonime in Canada, morti sotto la custodia violenta di collegi gestiti dalla Chiesa e finanziati dal governo, il cui scopo era quello di educarli ai precetti della società euro-cristiana. Condividendo questo spazio della galleria, che sembra quasi un confessionale, l’opera si affaccia sulla Blood grid #4.

L’anno successivo, nel 2022, in occasione della visita in Canada, Papa Francesco presentò le sue scuse formali per il ruolo giocato dall’istituzione religiosa nella gestione di questi enti poco lineari, parte di un dogmatico regime espansionistico europeo concepito per diffondere il Cristianesimo. In effetti, osservando le pareti bianche della galleria d’arte, una certa linearità e grado di “purezza” emerge più dalle mura, anziché dal vestito bianco del Papa.

Catherine Opie. Walls, Windows and Blood

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Luca Del Core, vive e lavora a Napoli. E' laureato in "Cultura e Amministrazione dei Beni Culturali" presso l'Università degli Studi "Federico II" di Napoli. Giornalista freelance, ha scritto per alcune riviste di settore, per alcune delle quali è ancora redattore, e attualmente collabora con art a part of cult(ure). La predisposizione ai viaggi, lo porta alla ricerca e alla esplorazione delle più importanti istituzioni culturali nazionali ed internazionali, pubbliche e private.

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