Eddy Susanto. Allegory of Java. Con intervista a Naima Morelli e Valentina Levy

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“La Divina Commedia non ha praticamente alcuna trama, presenta uno schema di valori, è una gita a bordo di una mongolfiera”. Pare lo avesse detto Ezra Pound. E in effetti la sintesi provocatoria di uno nato nell’Idaho nel 1885 regge, risultando persino più simpatica di quella di Harold Bloom (lui sì un vero cowboy), secondo cui Dante sarebbe stato un poeta per poeti, laddove Shakespeare fu il poeta di tutti. Il dato di fatto è che la Commedia dantesca si confrontava con una società già vicina a quella contemporanea, per via dei ruoli di cui era composta, delle istituzioni e dei modi in cui esse gestivano e veicolavano gli interessi politici e culturali in gioco. Un’opera fondante del nostro canone, non solo letterario, ma insospettabilmente vicina anche ad altre realtà, ad altre latitudini.
È da poco conclusa, alla galleria GAD Giudecca Art District di Venezia, la prima mostra personale in Italia dell’indonesiano Eddy Susanto, dal titolo The Allegory of Java, dove l’artista ha messo a confronto varie rappresentazioni degli inferi secondo la tradizione buddista con quelle dell’Inferno di Dante realizzate da vari artisti occidentali, da Gustave Dorè a Giuseppe Bossi.

Un’analisi comparata in cui Susanto affianca alle illustrazioni dantesche (che ricrea sostituendo alle linee le parole di testi sacri giavanesi) i rilievi del tempio di Borobudur, sorto a Giava tra l’VIII e il IX secolo d.C..

La mostra, con la cura di Naima Morelli (autrice del testo Arte contemporanea in Indonesia. Un’introduzione) e Valentina Gioia Levy (curatrice indipendente e storica dell’arte asiatica), che da tempo si dedicano alla ricerca nel campo dell’arte del Sud Est Asiatico, ha toccato molti temi importanti che vanno al di là della durata dell’esposizione. A loro, quindi, chiediamo di approfondire alcuni di tali aspetti. 

Donato Di Pelino: Eddy Susanto rimane colpito, anche, dalla dimensione etica dell’opera di Dante Alighieri, dalla legge del contrappasso presente allo stesso modo nelle rappresentazioni sacre del tempio di Borobudur.
Credete che l’arte non occidentale, e quindi una diversa visione culturale, possa bilanciare o dare nuovo equilibrio anche al nostro sistema di valori, più volte distrutto e ricostruito anche dall’arte stessa?

Naima Morelli: Penso che l’incontro di sistemi di valori provenienti culture diverse dalla nostra possa restituirci la dimensione condivisa che ci lega come esseri umani.

Sono convinta che in fondo è proprio questo il ruolo dell’arte; utilizzare una forma precisa, specifica, a volte libera, a volte più codificata, per rivelare il senso di unità sottostante.

Entrare in contatto con le opere di Eddy Susanto, che si tratti di quelle realizzate per questa mostra oppure delle sue serie precedenti, sempre basate su un approccio comparativo, non ha fatto che convincermi sempre di più questa visione.

Così come ogni etnia ha tratti somatici che si sono evoluti appositamente per sopravvivere e confrontarsi con una specifica geologia, ogni cultura ha sviluppato nel tempo le forme valoriali che meglio si adattano alla forma mentis locale.

Il concetto di colpa cristiano, e quindi la legge del contrappasso, non sono esattamente sovrapponibili alla legge del karma dei buddisti, così come il Carpe Diem di Orazio può rassomigliare, ma non è identico all’idea del presente dello Zen.

Non era il Dalai Lama stesso che scoraggiava occidentali entusiasti dall’abbandonare la propria religione per diventare buddisti? Perché cambiare il nome degli dei nel proprio cielo, quando in fin dei conti tutte le grandi religioni del mondo – e anche l’arte – puntano ad un’unica verità, vista da angolazioni diverse?

Detto questo, sono chiaramente una grande fautrice dello sconfinare in territori inesplorati, lontani da sé. Per curiosità, per amore dell’incontro con l’altro, per il desiderio di lasciarsi trasformare. Si può diventare napoletani metallari buddisti, e se questa conversione avviene con cognizione di causa, si tratta senz’altro dell’incontro più interessante.

Se invece questa contaminazione avviene in nome dell’esotismo, se si scimmiotta la forma senza il contenuto, allora lo possiamo chiamare un vezzo, lo possiamo definire un gioco. Nell’ambito artistico anche questo è lecito.

Per quanto riguarda Eddy Susanto però si tratta di un discorso filologico. Per la sua serie in mostra a Venezia, l’artista si è approcciato sia alla Divina Commedia che ai bassorilievi sul tempio di Bourbodour con meticolosità e un grande spirito di ricerca, nonché un enorme rispetto per le fonti originarie.

C’è uno studio quasi accademico della materia, ma allo stesso tempo c’è l’intento spirituale di trascendere la forma, per arrivare appunto a questo sistema di valori che, come dicevo all’inizio, è proprio all’essere umano in quanto tale.

Valentina Levy: Da curatrice che si è avvicinata al contemporaneo dopo aver studiato l’arte orientale, credo che il confronto con le culture altre abbia giocato un ruolo essenziale per quel momento di rottura che sono state le avanguardie storiche. Non solo, com’è noto, per artisti quali Picasso, Gauguin, Matisse ma anche lo stesso Duchamp che pare conoscesse alcuni principi buddhisti come quello dell’impermanenza e del non-io.

Presumibilmente queste idee hanno giocato un qualche ruolo nella definizione della sua pratica artistica, probabilmente più di quel che si creda comunemente. Un’immagine ricorrente, ad esempio, della simbologia buddhista è la ruota, Dharmachakra, che si trova scolpita in vari templi buddhisti ed appare molto simile ad una ruota di bicicletta.

La sua simbologia rappresenta il ciclo delle reincarnazioni, ma è anche un simbolo di meditazione. La studiosa Jacquelynn Baas ha recentemente pubblicato un saggio che esplora le presunte influenze dell’arte asiatica nell’opera di Duchamp.

C’è ancora molto da scoprire su questo tema ma di certo, anche oggi, gli apporti delle culture extra-europee restano fondamentali per il rinnovamento di idee e concezioni estetiche, e la ridefinizione dei valori di riferimento.

Come curatrici conoscete molto bene il panorama dell’arte orientale. Quali differenze notate con il nostro sistema? In termini di approccio degli artisti, galleristi, atteggiamenti dei mercati.

Naima Morelli: La prima cosa che mi sento di menzionare è l’apertura. Se penso al mondo dell’arte del Sudest Asiatico, mi viene subito in mente l’entusiasmo che lo anima. Da nessuna parte ho trovato la stanchezza o l’atteggiamento algido che a volte caratterizza il mondo dell’arte nostrano.

Siamo cresciuti come italiani ed europei in un mondo dell’arte consolidato. Non abbiamo mai conosciuto i fasti, ad esempio, della Parigi pre-guerra, dove tutti i maggiori artisti e intellettuali erano in contatto, o in tempi più recenti se pensiamo alla nostra Roma, i più giovani tra noi non hanno mai vissuto gli anni mitici della scuola di Piazza del Popolo, in cui tutto era animato da un desiderio di espansione, di connessione.

Nel Sudest Asiatico quello che ho trovato da subito, che si tratti di fiere, di incontro con artisti o persino con l’istituzione, è una grandissima voglia di condivisione, di inclusione, che è propria ai sistemi artistici emergenti, i quali hanno una voglia genuina di conoscere e farsi conoscere.

E poi un’altra differenza che ha modellato la formazione degli artisti e lo sviluppo dell’arte contemporanea, è una diversa esposizione alle bellezze artistiche. Sicuramente in Cambogia non troviamo chiese traboccanti di Caravaggi e Sebastiani del Piombo. C’è invece un’enorme ferita, una storia viva, aperta, purulenta alle volte. E gli artisti hanno necessità di raccontarla.

Una delle differenze più marcate è quindi questo bisogno pervasivo di molti artisti di rivelare angoli bui della storia recente attraverso l’arte contemporanea, e come questa finisce inevitabilmente per coinvolgere anche comunità di persone che con l’arte hanno poco a che fare.

Questa istanza senz’altro si accompagna ad opere più commerciali, astrazioni lusinghiere, installazioni furbe, opere decorative, certamente, perché in Asia abbiamo comunque un mercato che, pre-pandemia, era ghiotto di questo genere di arte-prodotto.

Qual è il rapporto di un artista indonesiano con la critica e, più in generale, con la teorizzazione dell’arte?   

Naima Morelli: L’assenza di una critica d’arte e un sistema di teorizzazione forte in Indonesia o in tutto il Sudest Asiatico è una problematica molto rilevante. Certamente abbiamo curatori indonesiani che si muovono in maniera estremamente colta e consapevole, penso ad Alia Swastika, così come critici, teorici ed accademici all’avanguardia nel Sudest Asiatico e nello scenario contemporaneo in genere, come il filippino Patrick Flores.

Ci sono artisti indonesiani molto significativi a livello globale, ad esempio la performer Melati Suryodarmo, che hanno studiato in occidente (nel caso specifico con Marina Abramovic), e quindi portano con sé una consapevolezza profonda della metodologia della critica occidentale, e la infondono in tutti i loro incontri nell’ambito artistico.

Questi artisti sono infatti quelli che espongono di più all’estero perché vengono letti e compresi meglio da un pubblico internazionale. Ci sarebbe poi tanto da dire su come la critica d’arte occidentale sia sempre il punto riferimento. Ma cosa accadrebbe se si formasse una nuova critica d’arte, nata da una visione autoctona?

Quello che di fatto accade in Indonesia è che, in mancanza di uno stato che colleziona, il collezionista privato è colui che sancisce i parametri critici per l’arte contemporanea. Per fortuna in Indonesia ne abbiamo di molto avveduti.

Wiyu Wahono, che si è formato in Germania, è considerato un punto di riferimento, così come Andonowati, collezionista, gallerista e mecenate delle arti che ha voluto e sponsorizzato la mostra di Eddy Susanto a Venezia. Andonowati ha fondato il Bandung Contemporary Art Award, il BaCAA, che da anni ha un impatto critico di primissima rilevanza.

L’idea di arte di paesi come il Sudest Asiatico o l’Africa è, spesso, quella di una denuncia di un regime o un malgoverno, insomma un’arte civile, che supera la soggettività glamour dei nostri artisti-star. Pensate che questo approccio sia premiato e riconosciuto a livello di mercato o invece relega l’artista in una nicchia esotica in balia delle simpatie e dei trend più dominanti?

Valentina Levy: Credo che questo approccio sia quello giusto. L’arte “occidentale” novecentesca, con le dovute eccezioni rappresentate soprattutto da una parte di quell’estetica radicale che in arte e architettura, in Italia e all’estero, si è interessata ai contesti storico sociali ed economici, ai diritti civili, alle lotte di classe, si è chiusa in una bolla, staccandosi dal mondo per concentrarsi sul rinnovamento dei linguaggi, l’ossessione per i medium e l’omogeneità di una certa estetica concettuale e minimalista che portava alle estreme conseguenze i paradossi duchampiani.

Questo approccio dominante ha largamente prevalso nel secolo scorso creando quello scollamento tra il mondo e il white cube già evidenziato da O’Doherty egli anni 70.

Il post-moderno ha mescolato le carte in tavola, l’iper-modernità ci ha invece posto di fronte a delle nuove sfide e problematiche legate all’iper-globalizzazione. Oggi sono proprio i paesi extra occidentali dove il white cube e le sue regole non si sono mai stabilizzate in maniera predominante a spingere il rinnovamento.

Naima Morelli: L’esotismo è, spesso ma non sempre, nell’occhio di chi guarda. A livello di mercato e collezionismo, l’interlocutore di un artista indonesiano o del Sudest Asiatico è infatti quasi mai un occidentale; è prima di tutto un indonesiano che vuole consolidare l’identità del proprio paese, non attraverso batik e nasi goreng (i nostri pizza e mandolino) ma attraverso lo svelare tradizioni autentiche e storia recente.

Quindi c’è senz’altro un’arte civile, che è ai miei occhi la tendenza più spiccata. E ci sono anche artisti che vengono acclamati, rispettati, che hanno grande successo di mercato, penso a Heri Dono, Nyoman Masriadi in Indonesia, Sopheap Pitch in Cambogia, sebbene in modo molto diverso da un Francesco Vezzoli o un Maurizio Cattelan.

Direi che il culto della personalità dell’artista, il glamour, sono aspetti decisamente meno presenti in questa parte di Asia. C’è sempre un lavoro forte a supportare l’artista, e l’immagine finisce in secondo piano. Mi sembra che sia ancora diverso in Giappone, Cina e Corea, che sono sistemi artistici più consolidati rispetto al Sudest Asiatico.

Nel periodo pre-pandemia il mercato del Sudest Asiatico si muoveva molto con le aste, sicuramente molto con le fiere e premiava frequentemente artisti giovani, spesso estremamente giovani, che creavano opere accattivanti. Siamo ancora in una fase di ripresa, quindi è difficile esprimersi.

In questi giorni si è appena conclusa Art Jakarta, dove è stato presente anche il nostro Eddy Susanto, rappresentato da Lawangwangi e Artsociates. Dai dati di queste prime fiere capiremo come si sta articolando la risalita.

A livello di mercato in Indonesia abbiamo un numero crescente di collezionisti giovani che si stanno aprendo ad opere più concettuali ed imparano collezionando.

Questi si associano ad una modalità di collezionismo che sussiste da anni, cioè quella dei collezionisti che collezionano solo artisti del proprio paese, in modo da aprire i propri musei privati e, in assenza di uno stato che colleziona e storicizza, fare così la storia dell’arte. Un altro modo. Non viene la voglia di approfondirlo?

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Donato Di Pelino (Roma, 1987) è avvocato specializzato nel Diritto d’autore e proprietà intellettuale. Scrive di arte contemporanea e si occupa di poesia e musica. È tra i fondatori dell’associazione Mossa, residenza per la promozione dell’arte contemporanea a Genova. Le sue poesie sono state pubblicate in: antologia Premio Mario Luzi (2012), quaderni del Laboratorio Contumaciale di Tomaso Binga (2012), I poeti incontrano la Costituzione (Futura Editrice, 2017). Collabora con i suoi testi nell’organizzazione di eventi con vari artist run space.

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