Metafisica concreta. Intervista a Massimo Cacciari

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Nel suo ultimo libro Metafisica concreta (Adelphi, 2023) Massimo Cacciari elabora una personale visione su ciò che, in filosofia, è considerato metà ta physykà. Come confermato in un dialogo con Maurizio Ferraris (da “La Lettura” del 22 ottobre scorso), Cacciari riflette anche su un ponte ideale tra scienza e filosofia e sul più generale intento di individuare obiettivi comuni, da inseguire attraverso una cooperazione continuamente messa in atto da entrambe, non solo in termini meramente aggregativi ma costruttivi. Come scrive lo stesso Cacciari nel libro, “L’uomo manifesta la sua libertà non nel disciogliere, ma nell’intelligenza del connettere”.

Come definirebbe, in generale, il concetto di metafisica?

C’è una leggenda che circola sul termine metafisica, come se si trattasse di speculare su qualcosa di astratto che riguardi qualche mondo al di là del nostro. Metafisica vuol dire uno studio rivolto alla cosa in quanto tale, all’essente.

Essente è un participio, pertanto la metafisica affronta la questione della partecipazione dell’essente al tutto. Metafisica significa aver cura di ciò che rimane di non calcolabile ma sempre in relazione alla cosa in quanto tale, come un aver cura dell’inosservabile. Dunque nulla di trascendente ma qualcosa che vede l’essente nella sua integrità.

In questo senso, in che modo può verificarsi oggi il rapporto tra metafisica e scienza?

È fondamentale riconoscere una comunanza di oggetto di queste due dimensioni, che dovrebbero tendere entrambe allo studio dell’essente.

Se così non fosse, avremmo una filosofia che si occuperebbe solamente di questioni etiche e una scienza pseudo specialistica, poiché orientata ad analizzare singole dimensioni dell’essente, senza riconoscere che queste appartengono a qualcosa di integro, di non frammentabile.

L’essente di per sé non si presenta scomposto in pezzi, siamo noi che siamo capaci di osservarlo solamente in modo parziale. È importante quindi, più che per una questione filosofica, soprattutto per una questione di civiltà, riportare questa osservazione parziale a cui siamo costretti a una considerazione rivolta all’ integrità.

Come considera invece la relazione della scienza con l’arte?

C’è una profonda affinità nella ricerca artistica contemporanea e la prospettiva filosofica della scienza. La visione della fisica degli ultimi decenni coincide con quella espressa da Heisenberg, per il quale non è tanto la cosa ma la sua energia l’aspetto più indecifrabile e il motivo per cui l’essente è in vita.

La de-sostanzializzazione della fisica contemporanea è estremamente vicina alle ricerche artistiche più attuali. Entrambe sembrano cogliere la continua rivelazione che una sostanza dell’essente che per un momento da noi appaia comprensibile, non è infine qualcosa di determinabile o calcolabile.

Nella pratica dell’arte contemporanea, spesso, l’artista è interessato a indagare una condizione della realtà data per certa e a ribaltarla, modificandone gli esiti e quindi la prevedibilità. L’infrangersi delle onde del mare sugli scogli è un fatto naturale e inevitabile che prevede una dinamica e delle forze fisiche in atto.

L’artista può scomporre questo fenomeno isolandone degli elementi formali che si diverte a ricostruire sotto la sfera di leggi diverse, edificando un archetipo e giustificandolo attraverso una logica.

Se l’arte al tempo di Piero della Francesca o Giotto rappresentava però il vertice delle conoscenze scientifiche e tecnologiche del suo tempo, incorporate dall’artista nel suo lavoro, oggi la tecnica surclassa l’arte in velocità, efficacia della comunicazione, immediatezza di messaggi.

L’artista tenta allora di inglobare il discorso tecnologico o scientifico in modo speculativo, allegando cioè una mera proiezione della tecnologia nella propria opera.

È possibile che l’arte subisca una condizione di svantaggio nei confronti della tecnologia?

Per quanto la tecnologia oggi si renda più appetibile e accessibile, a mio parere l’espressione dell’arte sarà comunque sempre più veloce di quella della tecnica. Non vedo differenze sostanziali a livello di efficacia tra arte tecnica, entrambe sono espressioni del nostro tempo.

Volendo poi leggere la metafisica e l’arte sotto l’aspetto del tempo concepito nel termine comune di progresso, il concetto di tradizione è periodicamente accantonato, costretto a subire l’accostamento al nostalgico, al retrogrado o reazionario.

T.S. Eliot, un poeta che lei cita spesso nel libro, nel saggio Tradizione e talento individuale, scrive che la tradizione, per l’artista, non è da intendersi in senso cronologico come mera successione di fatti bensì come ottenimento costante e sempre attuale di una consapevolezza della propria presenza nel mondo a partire dalla storia.

Torniamo sempre a un discorso comune ad ogni periodo storico. Se consideriamo il moderno come moda, allora l’idea di tradizione viene trascurata o oscurata per i motivi che lei sottolineava. Anche oggi però, esistono fortunatamente artisti o scienziati che sono pienamente coscienti del vero significato di questo concetto e della sua attuazione.

Nella vulgata popolare ci si esalta spesso per personaggi che hanno “rotto” con la tradizione, considerandolo un merito a prescindere. In realtà la consapevolezza della tradizione in senso storico esiste eccome ma il comprendere che il passato debba essere conosciuto e approfondito è sempre stato un interesse di pochi in qualsiasi epoca.

Noi possiamo esprimere la metafisica attraverso il linguaggio, in quanto ogni nostra idea è un’idea linguistica. Il mondo contemporaneo protende però verso una lingua comune, globalizzata, ed ecco che la traduzione diventa prassi per abbreviare molte distanze e facilitare una serie di scambi. La poesia, sul punto, denuncia alcuni rischi.

Andrea Zanzotto, altro poeta molto presente nel suo Metafisica Concreta, ha rilevato come, in poesia, sia “quasi impossibile tradurre”.

La poesia è intraducibile per definizione, dal momento che non è fatta solamente di significati ma anche di ritmo, musicalità, tutti elementi che non è possibile tradurre in maniera esaustiva. Già Dante affermava questo e lo stesso si può dire, in termini meno radicali, per il romanzo o per la prosa d’arte.

Zanzotto si era preoccupato di come la continua traduzione costituisse un terreno scivoloso, che rischia di unificare e appiattire molti particolarismi linguistici. La traduzione è allora una risorsa o una minaccia?

Credo infatti che il lavoro di traduzione sia importante più per noi stessi e la nostra lingua che possiamo arricchire e trasformare. Se non diveniamo traduttori, confrontandoci con le altre realtà linguistiche, non saremo in grado di gestire e conoscere a pieno la nostra.

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Donato Di Pelino (Roma, 1987) è avvocato specializzato nel Diritto d’autore e proprietà intellettuale. Scrive di arte contemporanea e si occupa di poesia e musica. È tra i fondatori dell’associazione Mossa, residenza per la promozione dell’arte contemporanea a Genova. Le sue poesie sono state pubblicate in: antologia Premio Mario Luzi (2012), quaderni del Laboratorio Contumaciale di Tomaso Binga (2012), I poeti incontrano la Costituzione (Futura Editrice, 2017). Collabora con i suoi testi nell’organizzazione di eventi con vari artist run space.

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