#RoFF18. Un Amor. Nella provincia spagnola l’amore per Isabel Coixet è dolore e rinascita

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Un amor di Isabel Coixet, visto alla Festa del Cinema di Roma è già il secondo film spagnolo (dopo As Bestas di Rodrigo Sorogoyen) che parla della profonda provincia rurale, in cui convivono le peggiori tradizioni di vita sociale (xenofobia, grettezza, pettegolezzo, conflittualità sessuali, sciovinismo, scambi in natura, micro ricatti, relazioni estreme e violenze primordiali) e le nuove tendenze esistenziali, fredde, distaccate, ciniche, indifferenti, materialiste e approfittatrici, pervase da egoismi privi di umanità e pietà.

Dal romanzo di Sara Mesa, sceneggiato da Isabel Coixet e Laura Ferrero, ne è uscito fuori un racconto filmico, plumbeo e triste, tra montagne imperturbabili dalle cime ovattate e cariche di pioggia, pieno di oppressione e di dolore, di malinconia ed ossessioni ed alla fine dopo la fuga (la Escapa è il nome del paese) di rinascita di una donna, che è quello che conta.

L’urlo della protagonista, una strabiliante Laia Costa nel ruolo di Natalie, che è poi il messaggio che la stessa regista vuol far arrivare agli spettatori ignavi: “E’ così, è tutto così, è tutto così!”. Vuol dire che malgrado la nostra incredulità il mondo che viviamo è esattamente come Isabel ce lo ha descritto e come la stessa Nat lo ha vissuto; paradossalmente un mondo senza più amore!

La protagonista è una traduttrice simultanea, che conosce i dialetti africani ed è responsabile, attraverso i racconti tragici trascritti e registrati di immigrati, di poter far concedere permessi di soggiorno.

Una crisi profonda la costringe a lasciare il lavoro e rifugiarsi in un paesino di montagna della Catalogna per ritrovare una sua sicurezza, mentre i fantasmi del suo vecchio lavoro, che rivede in remoto sul computer, la seguono nelle sue solitarie giornate, anche con scarsità di risorse finanziarie.

I rapporti con i suoi vicini in un gruppo di case, apparentemente abitabili ed abitate, si rivelano a prima vista abbastanza inusuali. A cominciare dal padrone di casa (una bicocca decrepita che fa letteralmente acqua da tutte le parti) è una carogna invadente ed invasiva dell’abitazione di Nat, che chiede solo soldi con arroganza e non fa nulla per migliorare la sua situazione e depressione.

Ma non è il solo ‘strano’ perché l’artista hippy (Hugo Silva) che conosce (disegna e compone vetri colorati) è un superficiale pieno di sé e vorrebbe ‘saggiamente’ insegnarle il miglior modo di vivere. Gli altri, una coppia sposata con due gemelle, che arriva il fine settimana ed organizza feste sembra l’immagine della felicità familiare. Poi due anziani in fase alzheimer (che Nat cerca di aiutare) e la proprietaria del solo emporio presente, sono zombi, vuoti contenitori di luoghi comuni e pettegolezzi.

Soltanto Andreas (Hovic Kerchkerian), detto il tedesco, ma di origini armene, un omone grosso come una montagna e forte come un toro, contadino che le porta gli ortaggi, sembrerebbe normale, se non le proponesse, con brutale sincerità, di ripararle il tetto da cui piove a patto che fosse disponibile ‘a farlo entrare dentro di lei’.

Le necessità pratiche, l’insicurezza di rimanere sola, le carenze affettive ed un certo grado di ricatto nascosto sulle incapacità pratiche di Nat, persona di sentimenti e di pensiero, fanno si che lei accetti la proposta di Andreas.

Ma dopo il primo veemente e quasi estremo rapporto, mai avuto prima di quel genere, per solitudine, per necessità e forse per curiosità, Pat ritorna di sua volontà dalla montagna che l’ha sovrastata e dominata, e forse si immagina di poter veder nascere un amore, che le conceda una nuova serenità. Ma mentre in attimi di grande intimità, vorrebbe credere di essere amata, si ritrova invece con un uomo, tutto corpo e niente anima, che non solo parla poco ma è anche infastidito dei suoi pensieri e la riduce solo a fare l’amante.

Creando ulteriori distanze con gli altri abitanti che, come in ogni paese isolato e retrogrado, sanno solo usare la malalingua e la condannano ingiustamente all’ostracismo comune.

L’unico amico che Pat si ritrova è un cane semi randagio (che chiama Burbero) con il quale vive in casa ed al quale offre tutto il suo affetto.

Andreas rivela tutta la sua insensibilità di montagna vera (la frase “la montagna è severa” gli si addice), non risponde più al telefono e la scaccia, mentre tutti gli altri uomini (non più umani), presi da una mascolinità tossica d’altri tempi, in uno squallido contesto di avvoltoi in cerca di carogne, si propongono per il suo letto.

Un atto di accusa così eclatante viene dalla Spagna, ma se ci fosse più coraggio una storia così si dovrebbe fare anche in Italia, in cui invece in casi di stupro, ancora si tenta di disquisire quando c’è la volontà o meno della vittima donna.

Tutto quello che all’inizio del film sembrava inusuale, nei comportamenti dei paesani, rientra invece nelle peggiori abitudini di una umanità subdolamente gretta, violenta e degradata. L’urlo di Pat: “E’ tutto così, è tutto così!”, vuol dire che ci viviamo dentro e non vogliamo cambiare.

Bellissima la scena del ballo liberatorio di Pat sul picco di una montagna, con il paese adagiato sotto, mentre dice addio ad un mondo che non era come aveva pensato per ricominciare una vita. Ora finalmente con una maggiore consapevolezza delle sue forze e delle sue decisioni, senza più timori di solitudine, affronterà (insieme a Burbero, che gli era stato portato via) meglio la vita e le altre montagne che incontrerà nel suo cammino.

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Pino Moroni ha studiato e vissuto a Roma dove ha partecipato ai fermenti culturali del secolo scorso. Laureato in Giurisprudenza e giornalista pubblicista dal 1976, negli anni ’70/80 è stato collaboratore dei giornali: “Il Messaggero”, “Il Corriere dello Sport”, “Momento Sera”, “Tuscia”, “Corriere di Viterbo”. Ha vissuto e lavorato negli Stati Uniti. Dal 1990 è stato collaboratore di varie Agenzie Stampa, tra cui “Dire”, “Vespina Edizioni”,e “Mediapress2001”. E’ collaboratore dei siti Web: “Cinebazar”, “Forumcinema” e“Centro Sperimentale di Cinematografia”.

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