Mattia Bosco. Kórai, la Forma e l’aspetto sensibile di Dio. Con intervista

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Mattia Bosco (Milano, 1976) ha studi classici e formazione filosofica, un amore per la montagna (nella Val d’Ossola, soprattutto, luogo in cui vive quando alterna alla vita urbana milanese quella più ritirata alpina) e una propensione quasi naturale per la scultura.

Il mio approccio con la sua opera risale al 2012 alla galleria milanese di Federico Luger: gli anni passati hanno definito e strutturato la sua ricerca, che attualmente si riassume nella mostra titolata Kórai, al Tempio di Venere e Roma, al Parco archeologico del Colosseo, in corso fino al 14 gennaio 2024.

È quasi pleonastico premettere che una location storica e mozzafiato può facilmente oscurare qualsiasi intervento a posteriori e, soprattutto, accogliere come un corpo estraneo ogni opera che non riesca a instaurare una vera, coltissima relazione con il luogo. Se ne vedono continuamente di simili allestimenti opportunistici o, comunque, senza una sensata ragione per la quale siano stati portati proprio in spazi caratterizzati da altra architettura, altra arte, altra Storia e memoria delle quali non tengono realmente conto (si pensi a Senza Fine della magnifica Letizia Battaglia a Roma, 2023, mostra che ha usato come mero contenitore scenografico, teatrale, le Terme di Caracalla).

Ciò detto, non è questo il caso di Kórai di Mattia Bosco dove il sito, nel Parco Archeologico del Colosseo tanto amorevolmente gestito da Alfonsina Russo, ha concorso a dare spinta elegiaca alle sculture, favorendo un calibrato dialogo che le ha sostanziate ancora più profondamente.

L’artista ha quasi letteralmente animato il marmo – i tanti meravigliosi tipi di marmo – in totem femminili vedenti (e anche… preveggenti??) dove etica, estetica e poetica sono in equilibrio riuscito e il Femminino sacro sembrerebbe aleggiare ovunque.

Sapientemente allestite in questo posto straordinario e complesso, ricchissimo di bellezza, memoria e stratificazioni linguistiche, attivatrici di un quasi inevitabile colloquio tra Natura e Cultura (Storia compresa), le sculture paiono vivificate da ciò che hanno intorno, ovunque: in cui, anzi, sono immerse; e si concettualizzano grazie a richiamati retaggi archetipici e originari.

Tutto si incrocia, si sottrae ed emerge continuamente come in una danza, respira articolandosi per suggerirci ritualità sfuggenti e canoni misteriosi mentre al fine svetta principalmente un’analisi sulla potenzialità scultorea dei materiali e sulle infinite possibilità della forma…: perché è, appunto, proprio la forma a interessare sopra ogni cosa a Mattia Bosco.

La materia con cui ciò è reso corposo non è però, come abbiamo premesso, ininfluente: v’è una ricchezza di marmi usati in questa serie – in mostra – che palesa non solo una profonda conoscenza da parte dell’artista di questi elementi ma anche delle tracce storiche che essi racchiudono e sembra siano selezionati con grande cura…

…o mi sbaglio?

“È vero. Per entrare in relazione con il Tempio ho voluto puntare su una continuità materiale tra le opere che avrei fatto e i materiali che un tempo potevano essere presenti. Ho scelto alcuni marmi che anche i romani usavano; il marmo nero Portoro, il verde Cipollino, il marmo Paonazzo (o Pavonazzetto), il Fiordipesco, il Bianco di Carrara, il Granito dell’Elba, di cui apprezzavano la grana più fine rispetto a quello sardo.

I Romani sono stati straordinari amanti e voraci collezionisti di marmi e pietre che importavano dalle più remote province. Portare a Roma quei marmi era una manifestazione della loro grandezza, aveva un significato politico, perché tutti insieme quei tasselli dei più diversi materiali componevano il grande mosaico del loro potere geopolitico.

Questa mostra affonda le radici nella tua prima del 2012… Ci spieghi meglio?

“La prima Kòre – ancora non aveva ricevuto questo nome – la realizzai perché Federico Luger, appunto nel 2012, mi aveva chiesto una scultura per il Miart. La disegnai prevedendo all’apice, un elemento di ceramica; dopo averli realizzati entrambi ho capito i due elementi potevano e dovevano stare separati; così ho rinunciato alla ceramica e mi sono concentrato sull’ elemento in pietra, che ha aperto letteralmente la strada a tutto ciò che ho fatto dopo. Significativo esempio di eterogenesi dei fini nel processo creativo.

Ogni Kòre viene da un unico blocco informe che scolpisco in modo da ricavare un plinto verticale centrale che separa due elementi, uno alla base, che potremmo definire il piede, e uno ascensionale, che lo sormonta, e che potremmo chiamare la testa.

I due elementi grezzi, di pietra non scolpita, scorrono sui due lati opposti del plinto come su un binario verticale, e si fermano uno in basso e uno in alto, in un equilibrio di pesi.

Paiono quasi o avvinghiati ad esso o sue filiazioni… Da una parte una sorta di stele lavorata liscia che a un certo punto vede nascere, di lato e a salire, una conformazione aggettante lasciata meno levigata, più… naturale

“Mah sai, il marmo è e resta sempre naturale, nel senso che comunque lo lavori è la sua natura ad emergere… però un po’ sì, capisco quello che dici. Diciamo che il plinto stacca in modo così netto da indurre a pensare che le due parti grezze siano state agganciate, incollate.

In realtà non è così, è un pezzo unico ed è la stessa pietra. L’effetto di separazione, il fatto che il plinto appaia come un’altra cosa, è solo visivo. La levigatura fine della superficie lavorata produce l’effetto di una messa a fuoco delle venature e una saturazione dei colori, rispetto a cui le parti grezze appaiono fuori fuoco, meno leggibili.

Allo stesso tempo la superficie increspata della pietra naturale emerge come più complessa della parte lavorata, con un’espressività fortissima che mi piace lasciar sentire.

Mi stai dando del tutto una lettura fotografica, per così dire… Interessante…

“…fotografica? Sì, in effetti ho detto un po’ questo…  perché la messa a fuoco migliore permette di leggere una scrittura nella pietra, come fosse un libro con le pagine tutte saldate le une alle altre, e in cui nemmeno un istante della sua storia è tralasciato.

Vista in questa prospettiva, la pietra mi appare come tempo allo stato solido. Ed è potente, perché il tempo, che viviamo come qualcosa di fluido, che scorre appunto, nella pietra cambia stato, e arresta il moto, come fosse una fotografia dell’eternità. Platone diceva che “il tempo è immagine mobile dell’eternità”, la pietra ne è l’immagine solida, allude a un’assenza di tempo.”

Cultura e Natura sembrano ambiti di riflessione e mondi impliciti nella tua ricerca e nelle tue opere, quasi un sottotesto con cui leggerle e che ci viene fornito… mi sbaglio?

“Non ti sbagli. Il contrasto evidente tra la parte di pietra che scolpisco e quella non lavorata possono riferirsi anche a questo: al mondo abitato e lavorato dall’uomo e al mondo che c’è, che ci precede e ci include… però, vedi, tutto gira intorno alla pietra… le epoche, la Storia: paleolitico, mesolitico, neolitico (n.d.R.: litico, dal greco λίθος lithos, ovvero pietra).”

La pietra non è più materia primaria della nostra civiltà… cosa resta, oggi, di questo elemento e concetto? Lo stai difendendo, con le tue opere?

“Come dici giustamente la pietra è stata la materia antropologica per eccellenza, più ancora che per nostra civiltà, per la nostra specie. Attraverso la fabbricazione di strumenti litici le abilità tecniche e cognitive si sono sviluppate di pari passo, ma è una storia sterminata che non è il caso di ripercorrere adesso.

Il punto è che proprio grazie alla pietra abbiamo appreso a modellare il mondo e insieme noi stessi, e questo debito è talmente originario, talmente profondo, da essere diventato invisibile.

È tornato sotterraneo, e si perde negli strati minerali di ciò che sta prima della Storia. Non fa più parte del racconto, è la premessa dimenticata di ciò che siamo o crediamo di essere. Oggi l’elemento che definisce l’epoca in cui ci troviamo è l’uomo stesso: siamo nell’Antropocene a quanto pare.

Cioè, crediamo di avere il nostro fondamento in noi stessi, di essere altro dal mondo e da tutte le creature che lo abitano.

Abbiamo reso il mondo un luogo abitabile per noi, l’abbiamo trasformato a nostra immagine e somiglianza, convinti di essere addirittura stati fatti a immagine e somiglianza di Dio, e ci siamo tolti dal mondo, esattamente come il Dio trascendente in cui crediamo.

Ci siamo noi, c’è l’uomo, e poi c’è tutto il resto, che chiamiamo genericamente e pittorescamente Natura…”

… fino ad eccedere, come vediamo, avendone oggi consapevolezza…?

“Il fatto stesso che riteniamo di essere entrati nell’Antropocene è il riconoscimento di un eccesso, nel senso che questa ipotesi sostiene che il pianeta stesso si trovi in una nuova fase geologica nella quale l’uomo impatta in modo irreversibile sui sistemi terrestri.

Questa come sappiamo non è affatto una bella notizia. La consapevolezza teorica c’è, ma non basta, bisogna andare più a fondo e intervenire sulla visione del mondo che ha causato l’eccesso e tutti i problemi ad esso connessi.

I problemi sono sintomi, che vanno ricondotti a ciò che ne è causa. E la visione da cui hanno origine si manifesta già solo quando diciamo “l’uomo e il mondo” perché, quando ci esprimiamo così la separazione è già accaduta, e quella piccola congiunzione (la “e” appunto) non unisce che grammaticalmente ciò che si è separato nella realtà. Quella “e” è una ferita che non cicatrizza.

Per rinsaldarsi dovrebbe diventare una “è”, una copula, che affermi invece l’identità di uomo e mondo, il fatto che sono lo stesso, che non c’è uomo senza mondo, che il mondo è l’orizzonte intrascendibile delle nostre vite. Il mondo, dall’essere la nostra dimora è diventato un luogo problematico, e la definizione di Antropocene dice appunto chi crea il problema.

Ovunque rileviamo le tracce dei danni che la nostra presenza produce, e constatiamo che l’uso che abbiamo fatto del mondo è un abuso. La parola Antropocene ci dice che il mondo è diventato un nostro autoritratto, che ci mostra che uomini siamo diventati.

I problemi che rileviamo in tutti gli ecosistemi in cui interveniamo compongono un altro mosaico, che è ha la nostra immagine, un ritratto senza sfondo, senza mondo.

Il concetto di Antropocene è molto fecondo, perché ci dice anche che l’uomo è diventato una forza geologica, che è filtrato negli strati della roccia. Ancora una volta è la pietra a dirci chi siamo.

Ancora una volta il mondo che pensiamo di poter trascendere ci incorpora nella sua carne dolente. Siamo ancora convinti di poter parlare di problemi ecologici come di qualcosa che riguarda la natura e non l’uomo?

L’ipotesi ufficialmente accolta dell’Antropocene ci dice che l’uomo non è uno spettatore, un osservatore esterno, ma ci radica nel pianeta, mostrandoci come la sorte di entrambi sia la stessa.

Persino nella scultura si possono ritrovare gli effetti di questa separazione tra uomo e natura, nella separazione tra la materia e la forma, tra artista e opera, tra idea e realizzazione. Questi sono temi che vivo in prima persona, facendo quello che faccio.

Vedi come anche solo facendo della scultura si possono ritrovare le tracce di un sentiero interrotto che ci riconduca a stare nel mondo, a guardarlo, e non a voler vedere sempre e soltanto la nostra immagine in ogni cosa.” 

Riflessione filosofica con qualcosa di spirituale, in senso cosmico, quasi…

“La mia formazione, come sai, parte dalla Filosofia, ma quando scolpisco penso con tutto il mio corpo, e la mente sposta il suo baricentro nelle mani. La scultura è un corpo a corpo, è un tango, una danza.

La materia non è inerte, il corpo non è uno strumento, la scultura non è mimesi, non è rappresentazione di un’idea, e l’idea non è un modello completo che replico nella materia.

È l’innesco di un processo evolutivo: la forma che sopravvive è quella che sa stare al mondo, in quella materia, adattandosi.  La materia è l’evento della forma, è lì e solo lì che l’idea nasce e diventa ciò che è.

È la materia che rende sensibile la forma: non come concetto astratto, ma proprio quel pezzo di pietra, di mondo. Ed è questo a rendere individuale e reale un’idea. L’idea deve accettare di essere la scintilla che muore nel fuoco che accende.”

Lo dici attraverso le tue opere, queste tutte somigliantissime le une alle altre per struttura e dimensione, ma realizzate con differenti materiali, quindi colori, venature, grana, peso etc., tanto da risultare, invece, diversissime tra loro…

“Le nove Kòrai sono altrettante risposte alla stessa domanda. Come ho appena detto, una stessa scintilla che accende nove fuochi diversi. Una stessa idea o, meglio, uno stesso impianto formale che si realizza in nove sculture simili e diverse, in un gioco di differenza e ripetizione.

Sono nove esemplari di una stessa specie. E hanno le loro antenate nelle kòrai della scultura greca arcaica. Si tratta di una parentela genetica, non manifesta. Io la sento fortemente.

Scegliendo di usare per tutte lo stesso impianto formale ho corso un rischio, sai? Potrebbero sembrare una ripetizione della stessa scultura, qualcuno potrebbe pensarlo, ma poi se guardi bene, ti avvicini abbastanza, oppure se le abbracci con lo sguardo tutte insieme, vedi che ognuna è diversa, non solo nel colore e nel marmo…

Ogni blocco da cui sono partito, con la sua forma di partenza, ha determinato una diversa incarnazione della stessa forma.  Ogni marmo poi ha una sua struttura, un suo carattere preciso, e ti suggerisce come può essere lavorato. Esattamente come ogni persona non può essere avvicinata nello stesso modo, non reagisce nello stesso modo di un’altra a un saluto, a un invito, a un ordine…ma soprattutto come ogni individuo della stessa specie, ognuna di queste Kòrai è un individuo che rimanda a una specie.

Quindi sì, sono nove, ma la specie continua, e tutte insieme alludono a una specie cui appartengono e che non può essere scolpita, perché ogni Kòre sarebbe ancora una volta un altro individuo.”

Non c’è mai tentazione raffigurativa, narrativa o didascalica: questo lavoro, come chiarisci, parla di forma e materia, di unicità, della struttura, insomma, della vita; ma ha anche una sua dimensione archetipica, e qui collocato rimanda fatalmente a vestali silenti disposte in formazione rituale; mi fa pensare anche al femminino sacro… E sono tutte rivolte al centro, ordinate come se osservassero chi, di volta in volta, entra nel loro spazio riadattato…

“È così: ho chiamato queste sculture Kòrai, ma la Kòre della scultura greca arcaica ha le sembianze di una fanciulla, la riconosciamo. Mentre nel caso delle mie Kòrai il nome evoca, non raffigura. Ma chi è Kòre? Possiamo chiedere al mito, e avremo una risposta. Ma perché tutte queste fanciulle si chiamano sempre con lo stesso nome?

Perché Kòre viene definita da Euripide arretos, ossia indicibile, ineffabile? C’è qualcosa che si sottrae alla raffigurazione, qualcosa che è impossibile da dire, e che, ciò nonostante, viene continuamente raffigurato, ossessivamente ripetuto.

Qualcosa che non si lascia dire, che non basta dire, e che pure non si può far altro che continuare a dire. Innumerevoli tentativi di catturare l’immagine di Kòre, reti che restano inesorabilmente vuote. Tutti gli scultori disposti a fallire pur di aver provato, in un infinito corteggiamento.

Il mito ci aiuta: Kòre è la fanciulla scelta da Ade, che lui rapisce. Ma anche Ade non può tenerla sempre con sé ed è costretto a negoziare una proprietà temporanea. Il mito mitiga il fallimento umano, rivelando come perfino a un dio non sia concesso trattenerla. Ma ancora: chi è Kòre questa fanciulla contesa e irraggiungibile?

Azzardo una risposta: Kòre è la decima fanciulla, quella che le nove Kòrai disposte in cerchio guardano e proteggono. Ognuna di loro è immagine speculare di una fanciulla che non c’è, ognuna è replica di ciò di cui non si può dare, e dire, l’originale, l’origine..”

Queste nove Kòrai che non hanno sembianze umane, deposta la maschera della fanciulla, svelano la materia di cui sono fatte, quella materia che compone tutte le cose, che è, come diceva Platone l’aspetto sensibile di Dio.

Info mostra Kórai | Mattia Bosco

  • a cura di Daniele Fortuna
  • promosso dal Parco archeologico del Colosseo, dalla galleria d’arte Atipografia, diretta da Elena dal Molin, e da ArtVerona
  • connesso alla nona edizione del progetto Level 0, format di ArtVerona 2021 che ha invitato una selezione di musei e fondazioni private ad individuare ciascuno un artista presente in fiera da promuovere all’interno della loro programmazione futura. Mattia Bosco – rappresentato in Fiera da Atipografia – è stato scelto dal Parco archeologico del Colosseo per la realizzazione della mostra
  • Tempio di Venere – Parco archeologico del Colosseo
  • fino al 14 gennaio 2024
  • Info tel: 0669/984443; mail: pa-colosseo.ufficiostampa@cultura.gov.it
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Con una Laurea in Storia dell'Arte, è Storica e Critica d’arte, curatrice di mostre, organizzatrice di eventi culturali, docente e professionista di settore con una spiccata propensione alla divulgazione tramite convegni, giornate di studio, master, articoli, mostre e Residenze, direzioni di programmi culturali, l’insegnamento, video online e attraverso la presenza attiva su più media e i Social. Ha scritto sui quotidiani "Paese Sera", "Liberazione", il settimanale "Liberazione della Domenica", più saltuariamente su altri quotidiani ("Il Manifesto", "Gli Altri"), su periodici e webmagazine; ha curato centinaia di mostre in musei, gallerie e spazi alternativi, occupandosi, già negli anni Novanta, di contaminazione linguistica, di Arte e artisti protagonisti della sperimentazione anni Sessanta a Roma, di Street Art, di Fotografia, di artisti emergenti e di produzione meno mainstream. Ha redatto e scritto centinaia di cataloghi d’arte e saggi in altri libri e pubblicazioni: tutte attività che svolge tutt’ora. E' stato membro della Commissione DIVAG-Divulgazione e Valorizzazione Arte Giovane per conto della Soprintendenza Speciale PSAE e Polo Museale Romano e Art Curator dell'area dell'Arte Visiva Contemporanea presso il MUSAP - Museo e Fondazione Arazzeria di Penne (Pescara), per il quale ha curato alcune mostre al MACRO Roma e in altri spazi pubblici (2017 e 2018). È cofondatrice di AntiVirus Gallery, archivio fotografico e laboratorio di idee e di progetti afferente al rapporto tra Territorio e Fotografia dal respiro internazionale e in continuo aggiornamento ed è cofondatrice di "art a part of cult(ure)” di cui è anche Caporedattore.

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