L’eterno marito. Il doppio che rompe i confini

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L’unico modo per dire la verità è recitarla. Potrebbe essere questa la sintesi de L’eterno marito, andato in scena al Teatro Franco Parenti.

E dunque, nell’incontro tra Pavel e Alekseij, ex amante di sua moglie Natasha, va in scena un amore o soltanto la sua idea?

Quando riemerge dal passato, l’antico – inconsapevole? – rivale ha le fattezze cupe del fantasma, il sorriso crudele di un incubo che torna a schernire chi si è allontanato, per spingerlo a chiedersi dov’è l’inganno e a svelare – questo è l’assunto su cui si regge un duello di sottile perfidia – che entrambi stanno recitando un ruolo.

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ph. Francesca Ferrai

Alekseji, o Francesco, coi tratti taglienti di Francesco Villano, è l’avvocato affascinante che apparentemente tutto può, ma è perseguitato dalla sua solitudine de imprigionato in una eterna coazione a ripetere, la stessa della scena. Mentre Pavel – che coincide con Ciro, e ha il volto acuto e bonario di Ciro Masella – è l’Eterno Marito del romanzo Dostoevskjiano di partenza, ovvero l’uomo che “non può non essere tradito” e di conseguenza non può non accorgersene.

Ma è davvero così? O l’apparente bonomia di Pavel è una rappresentazione che tende alla follia, a consumare dall’interno la sua vittima? Spingerlo alla follia, nutrita, come l’odio, di ammirazione.
Del resto, dove tutto è rappresentazione, Ciro guarda a Francesco «con amore e rancore» come ai maestri, e come gli allievi ne ha rubato e ne nasconde segreti e debolezze, pronto alla vendetta su chi non può difendersi, come una bambina che a sua volta – forse – non è mai esistita, così come la possibilità di scrivere un altro copione, e sfuggire all’ennesima replica.

Ad andare in scena, infatti, è in realtà un gioco di doppi che si moltiplicano, e si confondono, in una parodia spietata di dramma borghese che ne conserva gli stili e immagini, ingombranti pareti comprese, e sperimenta – con intelligenza – la varietà dei media.

L’adattamento di Davide Carnevali, infatti, prende il testo di partenza e gli fa rompere l’obbligo di unità del teatro, aggiungendoci i primissimi piani e i dettagli che solo l’occhio invadente di una camera a mano può regalare, e le atmosfere di esterni che non sono l’aggiunta posticcia del contemporaneo a tutti i costi ma riescono davvero a dialogare con lo spazio scenico, con la naturalezza di mezzi che dimostrano di potersi davvero compenetrare.

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ph. Francesca Ferrai

Merito, in gran parte, della regia intelligente e ardita di Claudio Autelli, che sfrutta tutti gli spazi del teatro, portando a compimento in un esito molto felice la suggestione che film come Birdmen hanno accennato. Il sovrapporsi e sfarinarsi di Alekseij e Francesco, e Pavel e Circo ha a disposizione tutto il teatro, scena e fuori scena sono due componenti dello stesso racconto, mentre i cunicoli dei camerini diventano lo spazio angusto dove la crudeltà e la fragilità trovano un’inevitabile costrizione.

Così anche gli spettatori smettono di essere tali per diventare parte attiva di quel che accade in scena, in balia della rabbia – come bambini non voluti o non conosciuti, anche loro – o oggetto della fascinazione che solo il carisma dell’artista sa offrire con poche note, come quelle – gustosissime – di Non arrossire. Il primo Gaber dialoga così con Dostoeskji con assoluta naturalezza, e due fuoriclasse come Masella e Villano possono mettere alla prova l’intensità del loro talenti interpretativo in gran parte della gamma a loro disposizione.

Ne emerge un meta-metateatro labirintico e sapiente, che dimostra senza farne un esercizio di stile quanto sia proprio (solo?) la finzione a poter raccontare davvero l’animo umano. Di fronte al quale, però, è il pubblico stesso a dover essere capace di inchiodare l’artista – l’attore, ingannatore per definizione – alla stanchezza della sua finzione, quando questa si è accomodata su se stessa.

Quando l’artista, e dunque l’uomo «non ha più niente da dare al futuro. Quando la costrizione del ruolo diventa claustrofobica, come lo spazio scenico che – al Parenti – si restringe facendo coincidere il salotto borghese con il palcoscenico stesso, diversamente da quanto doveva evidentemente avvenire nell’allestimento originale, dove è più netto il confine tra interno ed esterno, una delle tante coppie di opposti che il testo dissemina.

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ph. Francesca Ferrai

Sfumarla, però, rende forse l’esercizio di comprensione più curioso e sfidante, e apre – come il teatro dovrebbe fare – nuove domande. Che si aggiungono alle molte sollevate dall’ambiguità dei protagonisti, demoniaci e multiformi come lo sono spesso le raffigurazioni del male nella grande letteratura russa o russofona (si veda Bulgakov). I due protagonisti, però, sono uomini e non demoni, e sotto allo charme che uno desidera e l’altro possiede suo malgrado, ad emergere sono in realtà le meschinità di entrambi, doppio e completamento reciproco, quasi che l’uno, in realtà, non possa esistere senza l’altro.

Così come non si può arrivare in scena senza un altro disposto al dialogo: «se tutto si risolve sostituendo l’azione con la narrazione, che fine fa il teatro?». Oppure, infine, senza che il teatro stesso sia in grado di mettere in discussione se stesso e i maestri da cui ogni attore ha rubato, come una lettera d’amore lasciata in un cassetto, il segreto della propria arte. E, in fin dei conti, la grande domanda sul proprio senso di sé: “come facciamo a sapere chi siamo se non sappiamo uccidere i nostri maestri?” o farli parlare.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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