Ci ha lasciati, Luigi Attenasio, un uomo di rara purezza nel cuore e nelle idee, un professionista dalla vocazione tanto illuminata che da giovane giurò che non sarebbe mai diventato come quei “baroni” della medicina per i quali il paziente è solo una tacca in più alla loro conoscenza e al loro potere.
E così ha fatto: Gigi Attenasio è sempre andato a fondo, indagando la malattia mentale e le sue connessione con la società e le ricadute politiche di questa su un sistema che ha bisogno di emarginare il diverso per affermare se stesso.
Presidente di Psichiatria Democratica, autore di alcuni saggi sul trattamento psichiatrico, sperimentatore di rapporti diretti e non protocollari con i malati, per noi di art a part of cult(ure) che abbiamo condiviso con lui progetti e stralci di vita è stato più di un amico.
Davvero – come lo ricorda Barbara Martusciello – “ci vorrebbero più esseri umani tanto aperti e impegnati in battaglie di vita così importanti e attente a “gli altri” e con la dote di dire più spesso noi che io come Gigi faceva.”
Lo salutiamo riproponendo un articolo nel quale raccontavamo la sua storia racchiusa in un’altra storia, quella di Narcisa, una paziente antica, una reclusa-esclusa, dimenticata nei manicomi di prima della Legge Basaglia.
La storia di Narcisa alle alghe. Il cuore della follia, la fiducia, il futuro
Dei manicomi, ormai, sappiamo tutto.
Sappiamo che non esistono più, almeno non più nella forma si vessazione e violenza. Eppure esistono ancora, in quella più raffinata e subdola della chimica. Chimica usata per avere gli stessi risultati di un letto di contenzione, anzi, migliori perchè dove l’umiliazione e le botte non sempre uccidevano la rabbia, le pasticche, le gocce e i sieri raggiungono l’obiettivo al cento per cento.
Sappiamo che sono stati luoghi di tortura, sappiamo che ci hanno finito la loro vita persone sanissime, alle quali oggi non si darebbe neanche un calmante; sappiamo che era il luogo dove abbandonare gli indesiderati, dove dismettere vite, dove alienare ricordi.
Sappiamo che erano centri di addestramento di aguzzini e laboratori di sperimentazione medica, ma non sappiamo quasi niente di coloro che lì dentro trascinava la sua vita, nè del loro rapporto con i medici, quei medici nuovi, innovatori, quei medici che cercavano dialoghi umani, con esseri umani.
Ed è proprio con la ricostruzione di un rapporto speciale, fra un medico luminoso ed una paziente forte e indomita che Maria Inversi fa luce su questo dialogo così necessario e ormai così dimenticato, perso, svuotato con un percorso teatrale, un dramma in due anni dal titolo “Io come questi non ci divento – Narcisa alle alghe” edito da La Mongolfiera.
Due personaggi ed un coro, moderno e terrifico nella sua cruda realtà.
Due personaggi: lo Psichiatra e Narcisa che attraverso frammenti di vita, di ricordi, racconti lontani, dialoghi serrati come nodi alla gola, disegnano la storia della (non) follia.
Perchè la follia non è. Non è nulla di definibile, la follia non si cataloga, la follia è estemporanea, a volte è arte, sempre è dolorosa, spinosa, degradante. Spesso ride a gola piena e sempre serpeggia verità.
“Se smettevo di fare la matta mi ridavano le mutande e una tunica
e una tovaglia, per asciugarmi, e il sapone per lavarmi
e anche una rete dove avrei ritrovato il mio corpo,
l’avrei toccato e non ne avrei avuto più paura.”
Questo si raccontano Luigi Attenasio (lo psichiatra) proteso a conoscere e a benedire ancor più che a supportare e a curare e Narcisa, la donna portata in manicomio per una depressione post partum e lì dimenticata per cinquant’anni; la donna, bella, forte e piena di saggezza, costretta “alle alghe”, una punizione di cui si ha memoria solo in pochissimi ospedali psichiatrici.
Narcisa, che quando voleva reagire ad un sopruso rompeva i vetri ed allora veniva portata nuda in una stanza chiusa, senza finestre, dove a terra c’erano tante alghe, alghe sporche, materiale inerte (come lo chiamavano) che avrebbe dovuto distruggere ogni suo istinto vitale, ma che lei raccoglieva come una veste, per pudore, mentre restava lì, sola, in un freddo che nessuno mai potrà raccontare.
La drammaturgia di Narcisa alle alghe porta lontano. Porta in quello che è stato l’Ospedale Psichiatrico; nella costruzione della sopravvivenza che, in chi non ha nulla da perdere, si vota spesso all’ironia; nel viaggio dello Psichiatra in un mondo che sente appartenergli da vicino, ma del quale non ha le chiavi e dunque, per entrarvi non gli resta che far conto su fede ed ideali. E’ una narrazione a più livelli, ognuno dei quali apporta un taglio di luce nuovo al magma del mondo in cui viviamo ed ognuno dei quali apre un passaggio, libero, verso il futuro.
“Io come questi non ci divento. Narcisa alle alghe” sarà presentato a Roma alla Casa delle Letterature (Piazza dell’Orologio, 3 – Roma) da Giorgio Patrizi e Francesca De Sanctis giovedì 19 settembre alle ore 18,00.
Giornalista culturale e autrice di testi ed adattamenti, si dedica da sempre alla ricerca di scritture, viaggi, tradizioni e memorie. Per dieci anni direttore responsabile del mensile "Carcere e Comunità" e co-fondatrice di "SOS Razzismo Italia", nel 1990 fonda l’Associazione Teatrale "The Way to the Indies Argillateatri". Collabora con diverse testate e si occupa di progetti non profit, educativi, teatrali, editoriali, letterari, giornalistici e web.
Grazie per questa sensibile presentazione. E’ difficile dire tanto in poco, lo sa chi scrive e lo sa ancor più chi scrive per il teatro. Narcisa è anche personaggio simbolico: le donne là, in tali luoghi, subivano anche più degli uomini, venivano, nei loro pudori, nei loro corpi, moritificate. Attenasio Luigi, durante la presentazione, ci dice che esistevano forme di diverso femminicidio. La memoria costruisce storia e chi siamo, ma anche chi erano dove siamo e dove e come potremmo ricostruire. Il libro tenta questa strada. Ancora grazie a Isabella Moroni.
Cara Maria,
grazie a te per averlo scritto.
Certo, la pista del “femminicidio istituzionale”, ovvero proprio l’interesse a trovare una soluzione “di potere” alla necessità di liberarsi di donne che mettevano a repentaglio onore e “padronaggio” dei maschi, è molto interessante e mi piacerebbe approfondirla.
Il tuo testo libera molte possibilità ed a mio avviso è bello e stimolante dal punto di vista drammaturgico proprio perchè non è univoco, ma sfaccettato, perchè prevede più livelli di interpretazione e più generi teatrali, perchè non mette lo spettatore nella posizione del “voyeur”, ma lo stimola in continuazione.
Se non si conosce il teatro e non si sa cosa vuol dire scrivere e avere un progetto di scrittura, è impossibile scrivere come hai scritto: competenza che diviene ricchezza per tutti se si consente alle parole di raggiungerci, anche nei nostri luoghi lontani, anche attraverso la nostra capacità di ricostruire…Grazie ancora. Non so come raggiungerti, ma nel mio sito, c’è il mio cellulare e ti pregherei di farmi uno squillo.
Maria