La space opera in chiave minore è il segno inconfutabile di un certo declino della capacità di pensare una storia spaziale in termini cosmici. L’ossessione di restringere gli spazi, dilaga, al punto che non c’è più spazio per lo spazio. Sia in termini fisici che concettuali. Un caso su tutti è l’ultimo nato sulla scia di Guerre Stellari: Rogue One: A Star Wars Story (dicembre 2016), diretto da Gareth Edwards, scritto da Chris Weitz e Tony Gilroy da un’idea del supervisore agli effetti speciali John Knoll,
Film compresso, dove di cosmo ce n’è pochissimo. E d’immaginazione anche meno. Il problema di Rogue one, pur non prendendo in considerazione gli inevitabili asincronismi, è che ha il profilo del buon film di genere ma niente di più. Troppo legato ai canoni attuali – comprese certe concessioni sul piano scenografico, si pensi ai costumi da tuareg in cui sono avvolti gli estremisti del pianeta Jedha -; troppo minimale per lasciare un segno, didascalico, nelle sue semplificazioni e infinitamente prevedibile.
La storia dal taglio a metà strada tra il serial televisivo e il videogioco non decolla. Asciutta e melodrammatica insieme. Un film che fin dalle prime battute tende in modo irreversibile ad avvolgersi su se stesso. Abusato all’eccesso il legame duale genitore- figlio, nella saga di Lucas perché possa ancora creare un barlume di empatia. I personaggi bidimensionali si perdono presto nella memoria. E al contempo, il gioco di specchi infarcito di rimescolamenti e rimandi è in debito di entusiasmo. Siamo nel campo del già detto. Anche in questo caso, come già avvenuto in Episodio IV, e ne Il Ritorno dello Jedi e nuovamente in Una nuova speranza, si entra e si esce dalle basi imperiali con relativa facilità. Al di là della credibilità prossima allo zero, si può apertamente parlare di stasi creativa. Potevano esserci innumerevoli espedienti per far sì che i ribelli possano mettere le mani sui piani della Morte nera, come Casablanca insegna nel caso delle lettere di transito, ma si è scelta inequivocabilmente la più facile. Questi “bastardi senza gloria” galattici, più che riscritture di archetipi, sono stereotipi puri. Jyn Erso fa pensare senza grossi sforzi a Rey e Il ronin jedi non vedente, è un Rutger Hauer di Furia cieca cosmico. K2, il robot che funge da spalla, si aggiunge a una sconfinata galleria di robot umani, seppure alla fine della fiera risulti forse il personaggio più riuscito. Cassian Andor, dei Servizi segreti, delle spie si porta addosso un senso della tragedia tanto enfatizzato dal risultare artificioso; Saw Gerrera, con la sua dimensione underground è un personaggio alla Luc Besson, più che alla George Lucas. Tornando agli asincronismi, il più vistoso è nel fatto che, anticipando la comparsa della Morte nera, non solo si deprime l’effetto sorpresa che da generazioni coglie gli spettatori quando se la trovano davanti ma non coincide soprattutto con lo stupore che coglie Han Solo e Luke Skywalker quando, uscendo dall’iperspazio le vanno incontro. Aggiungiamo che in Guerre Stellari – non si riesce proprio a chiamarlo Una nuova speranza – i membri del commando suicida che ruba i piani della Morte nera vengono genericamente chiamati spie ribelli . Il loro capitolo nelle cronache si esaurisce qui, al punto che nella cerimonia in cui Han Solo,Luke Skywlaker e Chewbacca vengono decorati e promossi a generali, non v’è traccia di loro. Neppure una menzione. Insomma alla fine della fiera anche questo episodio a latere della serie, s’inserisce forzatamente in un impianto che viene impietosamente rimaneggiato persistendo nella ricerca di una coerenza a tutti costi. A poco valgono i cameo di Darth Fener e Leia Organa. Biasimo assoluto per la riesumazione di Peter Cushing. Una cosa da film dell’orrore.
Pier Luigi Manieri, curatore di eventi, scrittore, saggista e cultore della materia cinematografica. Ha dato alle stampe l'antologia di racconti spy, horror, sci fi, urban fantasy e a tematica supereroistica "Roma Special effects -di vampiri mutanti supereroi e altre storie" (PS ed.) e la monografia "La Regia di Frontiera di John Carpenter "( Elara). D'imminente pubblicazione il saggio "Le Guerre Stellari - Ovvero, la space opera cine televisiva da Lucas ad oggi" contenuta nel volume "Effetti Collaterali – la fantascienza tra letteratura, cinema e TV" (Elara). Ha all'attivo centinaia di articoli su diverse testate di settore. Esperto d'immaginario e sottoculture di genere, ha curato il volume, "Il Tuo capitolo finale" dedicato a Sherlock Holmes. È autore e regista dei reading video musicali “Iconico & Fantastico” e "Il cinema del telfoni bianchi". Ha ideato e curato eventi come Urania: stregati dalla Luna, Il cinema italiano al tempo della Dolce Vita, Effetti Speciali, MassArt, Radar-esploratori dell’immaginario.
A prescindere che Episodio IV e Una Nuova Speranza sono lo stesso film, secondo me Rogue One racconta bene l’incipit descritto nei crawl di apertura del primo film della saga, dove si narra appunto di spie ribelli che sono riusciti a rubare i piani durante una battaglia.
Trovo questo film realizzato molto meglio de Il Risveglio della Forza, sia a livello di sceneggiatura che a livello interpretativo, ove la drammaticità si sente molto di più. Senza contare che ha colmato i buchi di sceneggiatura di Episodio IV.
Mi trovo d’accordo con Fabrizio.
Mi piace come ha condotto la sua analisi Manieri e avendo io visto il film ed essendo una appassionata e conoscitrice del ” genere ” sposo totalmente la sua tesi, lucida, espressa anche con ironia.