I nuovi artisti americani?

La collettiva di giovani artisti americani (l’ultima generazione dipinge), molti ventenni e qualche trentenne, alla Brand New Gallery di Milano. Conclusione: operano su ciò che non riescono a controllare. C’è un che di moderno in questo, ma non vanno fino in fondo al problema sollevato, rimangono come sospesi, gratificati dal loro obbiettivo: il mezzo. Essi non affrontano il contenuto dell’opera, ma il mezzo. Per questo è un’arte abbacinante come un flash fotografico, e come una farfalla muore in un giorno! Che traccia lascia? Quella di un problema (teorico) corretto e non risolto. L’opera d’arte, quella vera, è un punto d’arrivo e non di partenza. Lo è per consentire all’osservatore di partire attraverso essa, di utilizzarla come inizio in lui, e non in un’immobilizzante fine senza slancio.

Se l’opera compie il suo viaggio, l’osservatore inizierà il suo in essa. Se l’opera avverte lo slancio teorico prima del corpo che la costituisce essa congelerà lo sguardo e non darà fuoco allo spirito (allo spirito dell’uomo che guarda). Questi giovanissimi artisti americani producono un’arte accattivante ma non risolutiva. Essa è fredda, e perché lo è? La loro tradizione è troppo breve per tornare indietro al bisogno della figurazione che è al cuore di molti secoli passati qui in Europa e ancor più nel nostro paese, l’Italia. Perché essi dovrebbero seguire una tradizione che non hanno (non hanno il Barocco, né il Medioevo, non hanno il contatto diretto con la tradizione più lontana dell’Occidente)? Perché dovrebbero volere una tradizione che non è la loro? Perché la teoria non conosce latitudine, il bisogno teorico non ha frontiere! Essi scoprono che debbono indagare ciò che non possono controllare, ma non hanno i riferimenti per andare oltre il rinnovamento del mezzo.

E dov’è che si vede meglio il mezzo, in che genere di arte? Proprio nella pittura, la più tradizionale, ma che lì da loro non ha che un secolo o poco più di vera evoluzione. Essi colgono il bisogno dell’unità del quadro, ma non pensano che la loro operazione sia quella di riconquistare la figurazione, e restano quindi a metà strada, nell’astratto, in un astratto però raggiunto con mezzi tecnologici che mimano la pittura, o scanner per modernizzare la superficie, o pigmenti come reagenti chimici che variano secondo regole loro. Quando c’è il pennello o qualcosa di simile (Joe Reihsen) esso serve come applicatore di materia e non per dipingere: è casuale e non controllato. Il colore non basta, deve trasformarsi in un reagente autonomo che crei l’iridescenza di un fondo di conchiglia, e l’artista sistema i segni in una casa essenziale per sprigionare meglio la varietà e la casualità del reagente. Poi c’è la tecnologia artigianale, fatta di elementi poveri (Ethan Cook): riquadri di tela chiara cucita invisibilmente ad altri riquadri in colori spenti o quieti; una volta la tela pronta si tira sul telaio, e accade che quei riquadri di colore, uno o due, di varie dimensioni e in diversi luoghi della superficie, in base alle cuciture che funzionano da tiranti, spostano i suoi bordi con un’indipendenza che diremmo casuale, ossia tecnologica, priva di controllo quindi, in un accadimento più indipendente di qualsiasi, anche lieve, preordinato.(Qualche altro esempio: Andrew Brishler. C’è antagonismo tra i due stati estremi della superficie, in diretto contatto, ossia da una parte il fondo pregno del caos di residui e sopra lo strato continuo, quasi cartesiano, di una fila di colori puri (due o più, o anche uno solo rovesciando il sistema antagonistico) sfumati l’uno nell’altro, a colmarsi ed esaurirsi in potenza. E quando inserisce una parola al centro del quadro nel vuoto del colore spesso che ha intorno cerca di abitare idealmente, metaforicamente e fisicamente, lo spazio tra i due stati antagonisti, come se ci fosse tra i due uno iato abitabile, un trasferimento e un condizionamento analizzabile a volte pieno (dell’olio assorbito dalla tela che fa alone intorno al blocco di colore simulando una profondità, nei primi casi) a volte vuoto (dove attraverso la parola sulla tela respira soltanto un alone di bianco leggero, che passa e spazia lì e oltre, dietro il colore, nel senso mentale – astratto – di una parola: AIR). Ecco perché quel volume a V rovesciato che appoggia la punta alla parete lascia trapelare sul muro i colori retrostanti all’oggetto che volano e occupano invisibilmente l’aria: antagonismo opposto, di condizione fisica, e del suo superamento, della materialità.

Poi c’è Landon Metz che affronta il non-soggetto. Porta l’attenzione ai margini del soggetto riducendolo pittoricamente a un’astrazione di macchie di colori distanziate e liquide tanto da perdere quasi tutto il corpo pittorico, e assorbite, assestate nel supporto della tela, guidate da esso: l’artista col pennello secco spinge nel supporto intelaiato creando dei leggeri solchi dove andrà poi a versare il pochissimo colore necessario che si disporrà autonomamente secondo la morfologia dell’avvallamento. Egli spesso crea un’opera fatta da più tele con la stessa disposizione di segni, quindi sposta l’attenzione dal soggetto astratto, a un’astrazione più ampia in costante fuga e ripresa di una materialità che si trova ai margini di un’evidenza immediata. Egli vuole spostare completamente l’attenzione dello spettatore su ciò che non è controllato, tanto da dominare l’aspetto lirico di quella prima evidenza, facendo passare la sua concretezza in uno stato ambiguo, misterioso e bello della creazione.

Brendan Lynch. Se il quadro è la somma del mondo, l’accumulo è una complessità che sfida l’esterno e lo fa umanamente contro l’estraneità del mondo, e se in seguito la materia accumulata viene scavata o screpolata o spellata (tra materie distanti per natura e applicazione, per esempio foglie d’argento, serrate linee di grafite a coprire tutto, o concrezioni di cenere, o tele multicolori lavate ed esposte come quadri o come lenzuoli mascheranti delle persone da cui spuntano solo i piedi) passando da una superficie all’altra enigmaticamente senza risolverle in una somma o addizione di materia che non svela il suo motivo ma che solo lo mostra, così come fa l’uomo davanti alle cose del mondo. Ed ecco che su un quadro la cui superficie è colma di segni di grafite una traccia di spray senape si sovrappone più ampia in alto a destra sull’opera e prosegue sul muro: chiara è la volontà dell’artista di mostrare non il quadro in sé ma il legame conflittuale irrisolvibile che esiste e sempre esisterà tra ciò che è umano e il mondo. Tutto è incentrato sullo spazio che fa muovere le materie fino al quadro per conquistarlo (azione umana) e la sospensione in cui esse stanno nonostante tutto e che le fa tornare in fuga (azione naturale) nell’estraneo del mondo.

Infine la ricerca di una non-materia da parte di Travess Smalley. Non-materia come ambiguità visiva di una materialità. Egli lavora in solo campo digitale, sovrapponendo in un collage infinito porzioni di forme sconnesse, come pellicole riempite da sfumature complesse in una consecuzione vivace variatissima, frenetica, certamente impossibili da realizzare in concreto con pennello e pittura. L’elemento digitale permette una moltiplicazione infinita di piani tutti sulla medesima superficie: questo già offre un’estraniazione percettiva davanti al caotico assemblaggio digitale, in più l’artista lascia trapelare alla stampa – vero distanziamento dell’atto da quella materia trattata – la non perfetta risoluzione del file, così egli fa sì che si mostri la struttura meccanica – presa più negli effetti che essa crea che nel semplice mostrarsi dei pixel – che sorregge l’immagine. Ma egli vuole sviare anche la percezione della materia, e lo fa scannerizzando della plastilina di diversi colori spinta ad aderire sulla superficie di vetro dello scanner e poi mostrando la stampa dell’immagine ottenuta. È una fotografia di qualcosa che sta contro l’obbiettivo, irrealizzabile con una semplice macchina fotografica ma oggi possibile con uno scanner. Lo spettatore da lontano coglie una realtà fisica che, avvicinandosi, svanisce in una condizione materiale sfuggente, in una crisi percettiva che si apre a un possibile nuovo.)

Quadri informali dalla materia sfuggente tecnologicamente, ambigua, distraente (Reihsen). Il soggetto non esiste, l’attenzione è rivolta a questo apparire distraente del mezzo. Tutto è meno impostato (per esempio può apparire in un caso un Burri slavato – Cook). Il soggetto che non c’è, che viene accantonato, sta lì per sorreggere l’evento indipendente, tecnologico o meno, in ogni caso tecnico. Ma è proprio il soggetto a essere la chiave delle preoccupazioni che queste opere sollevano (senza saperlo). È come se il corpo dell’opera dovesse eclissarsi, o assottigliarsi, a tal punto da trovare una sua uscita di scena, per sospendere nel proprio tempo, e non più dell’autore, l’azione di un’apparenza che pur sempre, per loro sorprendentemente, da lì emana, concretamente indipendente…ma in realtà corporalmente troppo poco incisiva da far tremare il reale al suo passaggio. La vera arte sempre fa tremare le ragioni che la circondano. I riflessi illusori, i baluginii, le rifrazioni fredde e stereotipe che se ne hanno non raggiungono un acme significativo.

È proprio questo il punto: l’arte esiste in contatto con il mondo. E questo contatto è diretto, mai filtrato, sempre vincente sulla teoria che pure ha portato fino all’opera. Affrontare i procedimenti di indipendenza di un materiale è il fondamento dell’arte del prossimo futuro, ma questo procedimento non deve prendere il sopravvento sul resto, dominare l’opera. Essa da fine deve diventare mezzo (per lo spettatore); ossia come mezzo (mentre l’opera viene creata) deve essere un passaggio che l’artefice (o l’artista) segue fino al suo compimento nel mondo, in contatto con esso.

A mio avviso questa liberazione della rappresentazione si riconduce naturalmente al cuore della tradizione artistica, alla figurazione, riscoperta da qui, nuova, liberata, mai più descrittiva, o mimetica. Il grado astratto su cui si muovono questi artisti giovani è un suggerimento (dato dallo stesso mezzo) del mezzo da utilizzare e non dove ultimare la ricerca.

Potrebbe essere questo il declino dell’Arte negli Stati Uniti?

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Jacopo Ricciardi è nato nel 1976 a Roma, dove vive e lavora. Vincitore di diversi premi, ha pubblicato sette libri di poesie - Intermezzo IV (Campanotto, 1998), Ataraxia (Manni, 2000), Atòin (Campanotto, 2000), Scultura (con Teodosio Magnoni; Exit, 2002), Poesie della non morte (con Nicola Carrino; Scheiwiller, 2003), Colosseo (Anterem, 2004), Plastico (Il Melangolo, 2006), Scheggedellalba (con Pietro Cascella; Cento amici del libro, 2008) - nei quali il suo modo di procedere è “vasto quanto un luogo poiché lì è qui ma quando/ci si avvicina al luogo qui e lì già accade tra la/parola e l’universo che si toccano”. Ha ideato e curato dal 2001 al 2006, per Aeroporti di Roma, il progetto culturale “PlayOn” e ha diretto l’omonima collana presso Scheiwiller. Ha pubblicato due romanzi, Will (Campanotto, 1997) e Amsterdam (PlayOn, 2008). È presente nell’antologia “Nuovissima poesia italiana” (Mondadori, 2005) curata da Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi.

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